Tre scimmiette e un virus… che indossava la Corona

Tre scimmiette e un virus… che indossava la Corona

Quando sono entrato in terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo. Ma la gente non vuole vedere, e spesso si rifiuta di capire“.

L’argomento rimane sempre lo stesso, quello con cui facciamo i conti dall’inizio di questo 2020, in costante bilico. Fa effetto, tuttavia, sentirlo pronunciare per bocca del direttore de La StampaMassimo Giannini che, non meno di ieri, nel suo editoriale, racconta in prima persona dell’esperienza da paziente. “Oggi ‘festeggio’ quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro“, prosegue. “Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro“.

Eccola, la sintesi perfetta di uno stato di prostrazione, che deve pesare tanto di più a chi, nella vita, è cresciuto attraverso la politica del fare. Sempre in corsa, sempre – senza facili ironie – sul pezzo. E invece il Covid spiazza tutti, dovunque. Basterebbe questo per – citando lo stesso Giannini – “vedere “. Che capire poi, ne è la diretta conseguenza.

Così, preferiamo riempirci di DPCM, uno via l’altro, sorta di placebo che però, a minare il male alla radice, non arriva; né potrebbe arrivare. D’altronde, quanto è più facile lamentarci, dimenarci, spazientirci e fare le nostre reprimende ogni volta che si parla di obblighi, restrizioni, rinunce, per poi tremare di paura, nel momento in cui il pericolo si rende nuovamente percepibile. Un po’ come il celebre personaggio, creato da Moliere. Quel malato ipocondriaco, sottoposto alle cure di medici cialtroni. Uno sguardo ironico ma al vetriolo, aperta satira sull’ottusità del primo, sull’inefficacia degli altri.

Qui, però, c’è poco da scagliarsi contro la categoria di chi, da fine febbraio, affronta i corridoi ambulatoriali, armato soprattutto di volontà di sacrificio.

Così te lo fai raccontare dai medici, dagli anestesisti, dai rianimatori, dagli infermieri, che già ricominciano a fare i doppi turni perché sono in superlavoro, bardati come sappiamo dentro tute, guanti, maschere e occhiali. Non so come fanno“, riprende Giannini. “Ma lo fanno, con un sorriso amaro negli occhi: a marzo ci chiamavano eroi, oggi non ci si fila più nessuno. Si sono già dimenticati tutto… Ecco il punto: ci siamo dimenticati tutto“.

C’è un vecchio detto, tipico della Capitale, che recita: ‘Magna e scorda‘. Siamo fatti così, noi, figli di mamma, abituati ad avere tutto, prima ancora di chiedere. Una volta rimossa l’impellenza – di qualsiasi sia la natura – riassumiamo, in un battibaleno, quel fare indifferente, come se tutto ci scivolasse addosso. Intoccabili e sordi, fino allo sgrullone successivo. Più intenso, più deciso. Più logorante del primo.

Non recrimino, non piango. Vorrei solo un po’ di serietà. Vorrei solo ricordare a tutti che anche la retorica del “non possiamo chiudere tutto” cozza contro il principio di realtà, se la realtà dice che i contagi esplodono. Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo cedere quote di libertà. Non c’è altra soluzione“.

Ehi, ragazzo, ‘ma dici a me?’ Sì, tu… proprio a me?

Attenti, il virus c’è: usiamo tutte le precauzioni“, conclude. Ma le raccomandazioni, rincuorate, sincere di ‘chi ci è passato’ suonano persino fastidiose. Meglio voltarsi, meglio fare spallucce e aggrapparsi alla retorica, che ‘a me che vuoi che succeda; ‘ma figurati, ormai l’abbiamo scampata’; ‘eh, però io mica posso rinunciare a…’. Già, beata incoscienza. Tutto si risolve, magari, con una bella cantata dai balconi. Liberatoria, per carità, ma è durata tutt’al più una settimana, perché dopo si è cominciato a fare il conto dei morti. E noi ancora lì, a mesi di distanza, con addosso la stessa assurda convinzione che un giorno ci si svegli e l’orrore sia terminato. Così, per decisione propria, si sia avventurato per altre vie…

Siamo stati consapevoli – lo siamo tutt’ora – di una seconda ondata (ma quando mai è passata la prima?), eppure rimaniamo assenti. Preoccupati nel tutelate il nostro personale ‘orticello’, senza accorgerci che serve abnegazione per coltivarlo e che quel piccolo campo si trova nel bel mezzo di una derrata assai più vasta, che ci riguarda tutti, uno ad uno. Siamo impastati di fragilità, bisogna riconoscerlo, e se non fossimo anche così sciocchi ci renderemmo presto conto che siamo colpevoli. Esecutori diretti della nostra stessa fine. Immaturi.

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