Non è Bridgerton, ma lo ricorda così tanto…

Non è Bridgerton, ma lo ricorda così tanto…

Io sono l’altra. La più piccola, quella, per così dire, destinata a restare nell’ombra. Secondogenita di una prole prefigurata, in un modo o nell’altro, per far parlare di sé. Già, perché la mia stella mi ha voluta Caroline Lee Bouvier. Sì, il cognome è quello, lo stesso che siete abituati ad ascoltare ogni volta che si parla della stirpe dei Kennedy o che si favoleggia sugli Amori del magnate Onassis. Sono nata nel 1933, sorella minore di Lei, quella Jackie tanto più famosa di me. Così diversa da me…

Jackie e Lee Bouvier

Entrambe siamo frutto del terzo ostinato tentativo di nostra madre di crearsi un futuro altolocato. Di rendersi intoccabile. Janet Lee Auchincloss: che dirvi? Era ambiziosa, tenace… ci ha cresciute, fabbricando per noi un destino da perfette debuttanti. Ci ha costruito intorno una vita che si declinasse all’insegna del prestigio. Un’arrampicatrice sociale? Forse. Del resto, l’uomo che avrebbe dovuto amarla la riempiva di corna. ‘Volatile’ John Bouvier III – lo so, dovrei chiamarlo papà – troppo preso con le sue faccende di gioco, con una successione di donne che sa di seriale.

Voleva altro, la mamma. Pretendeva, per me e per Jackie, il meglio. O, almeno, così sosteneva mentre ci cresceva. Caspita, con mia sorella ci è davvero riuscita. Chi l’avrebbe mai detto di vederla, un giorno, nei panni di First Lady… Io, vi accennavo, ero l’altra. La ribelle. Quella che detesta lo sport, che non vuole andare a scuola, che non sopporta l’insieme di smancerie e i vezzi legati all’etichetta. A casa, nel Connecticut, non facevo altro che prefigurare fughe. Le premeditavo, le studiavo nel dettaglio e, intanto, assaporavo quel po’ di libertà, a cui tanto poco ero abituata.

Eccentrica? Chissà… leggenda vuole che, a 11 anni – i miei in vacanza – mi sia recata con un taxi presso l’orfanotrofio più vicino, chiedendo di poter adottare un coetaneo. Che c’è di male? Cercavo solo compagnia. E invece no. Punita, con immenso raccapriccio soprattutto di mia madre, che mi vedeva come un ‘caso senza speranza’.

Magari lo ero. Io mi sentivo solo curiosa di conoscere il mondo. Ero irrimediabilmente attratta da tutto quel che respirava di arte. Pittori e musicisti costituivano la struttura su cui, da sola, mi andavo edificando. Il mio amico del cuore? Truman Capote. La mia band preferita? I Rolling Stones. Pensate, nel 1972, ho seguito l’intera loro tournée lungo il Nord America.

State già supponendo che avessi una cotta per Mick Jagger, vero? Ebbene, vi sbagliate: “Capisco possa risultare sexy, ma a me faceva un po’ impressione“. Mi piacevano gli uomini ‘diversi’, quelli che sapevano scompaginarti dentro. E’ per questo – probabilmente – che andavo d’accordo con Andy. Scusate, che sciocca, specifico: Andy Wharol. Lui sì che era anticonvenzionale. Mi faceva sentire giusta. Sempre, anche nelle circostanze più bislacche.

Diversamente da quanto insegnatomi, ho agito costantemente motivata dal cuore; mai spinta dai soldi né, tanto meno, dalla convenienza. Il mio primo matrimonio è durato 5 anni, dal 1953 al 1958. Mi sono innamorata di Michael Canfield, un pubblicitario. La seconda volta si trattava di un vero Principe. Sì sì, non scherzo. Stanislaw Radziwill, che però – vi assicuro – aveva più dello squattrinato. Il classico ‘nobile senza portafogli’, per capirci. L’ho sposato nel 1959 e, in effetti, se ripenso a quei giorni, rimane il sapore di un’esistenza sfavillante, fatta di case incredibili, di feste indimenticabili… un sogno. Interrotto quando mi ha lasciata sola. Me, il suo cognome e il sontuoso appartamento nell’Upper East Side di New York. Pensate, le riviste di arredamento se lo litigano per fotografarlo. Tutto qui.

Non fraintendete. Se ne andato, cause di forza maggiore: semplicemente, è morto. Oh, caro Stanislaw… che coppia, e quanti ricordi. Mi convincevi di non voler rinunciare a me e, intanto, intrattenevi relazioni a più non posso. Eravamo… due dalla mente aperta… oggi si direbbe così, giusto? Tu all’inseguimento delle gonnelle ed io sola, fino al giorno in cui i miei occhi non hanno finito per incrociare quelli di Lui. Aristotele era un uomo forte, determinato, eternamente inquieto. Nel 1961 avevo, insomma, trovato l’uomo perfetto.

Nulla mi impediva di mollare tutto, persino il mio marito dall’animo bambino e dedicarmi completamente – anima e corpo – al mio vero desiderio. Nessuno avrebbe potuto impedire, neppure ad Onassis, di lasciare la Callas per me (tempo dopo lo avrebbe fatto, bizzarra la vita, per mia sorella). Niente, tranne mia madre. Se state immaginando ordite trame nascoste, beh… avete ragione. Ha macchinato con i Kennedy, affinché quella che, fino ad allora, era stata solo un’unione civile, acquistasse la sacralità di un matrimonio religioso. Che c’entravano i Kennedy? Vi starete chiedendo.

Ingenui. Non avete calcolato il fatto che non ero un’orfanella. Facevo parte di una famiglia altolocata, in cui l’immagine della primogenita doveva, a tutti i costi, rimanere immacolata.

Dunque, macchinarono un piano astutissimo. Chiesero – ed ottennero – l’intervento della Sacra Rota, affinché venissero annullate le mie prime nozze e celebrate le seguenti: altisonanti, magnificenti, clamorose. Al punto tale da costringere l’armatore, orgoglioso come era, a fare retromarcia.

Illusa, io. Fin troppo passionale.

La morte di John, nel ’63. Poi, la successiva, di Bob, nel ’68, disegnò il resto dei fatti. Jackie cercava un Cavaliere che la proteggesse e lo trovò proprio in colui che, meglio di ogni altro, rappresentava, ai suoi occhi, il rifugio ideale. Quanto a Lui… vendetta, orgoglio, ambizione, scegliete voi la motivazione che più preferite. Non è stata Jackie a portarmelo via, piuttosto la sua enorme fame di regolare i conti nei confronti del Clan che lo aveva spesso ostacolato.

Uomini… nel 1968, sull’isola di Skorpios, venne celebrata la cerimonia. Ma questa è storia. A chi ancora, di recente, mi chiede: “vuole dire qualcosa su Onassis?“, rispondo tranchant: “No“.

Sono rimasta vedova, come vi accennavo, nel 1974. Da allora, ho lavorato come interior designer. Clienti ‘sceltissimi’. Seleziono, da sempre e per indole, solo il capitale umano migliore. Da allora, ho amato ancora. Prima Peter Beard. Me lo ha presentato Andy; poi un nuovo sposalizio. Stavolta si trattava di Herbert Ross. Le gente lo conosce come regista e coreografo. Ma questo poco importa.

Lee insieme ad Herbert Ross

Me ne sono andata il 15 febbraio, nel 2019, stufa e annoiata di vedere un mondo che intorno cambiava sì, ma senza il mio consenso. Non che mi abbia mai fatto paura la diversità, questo lo avrete di certo compreso. Solo, mi sembrava, ad 85 anni, di girare al contrario. Così mi sono detta: “Che importa!“. Il più era fatto.

Cosa altro aggiungere? Quella storia, quella con Aristotele, sapete…? E’ stata, forse, la più intensa e burrascosa che abbia mai vissuto. Mi ha segnata, eccome, e magari un pizzico di anima se l’è portata via. Ma mi ha anche insegnato, e parecchio e se mi richiedessero adesso, in questo preciso istante: “Rifaresti tutto Lee?“, risponderei che sarei ancora più determinata nell’essere libera, nel difendere le mie idee ed una personalità che nulla o poco aveva a che vedere con le sovrastrutture che mi circondavano.

Ecco, questo è ciò che chiedo di fare a voi, che avete avuto la gentilezza di ascoltarmi e scortarmi sin qui. Ascoltatevi. Non rimanete zitti mentre qualcun altro decide per voi. Tiratevi fuori dai meccanismi di una società che, spesso, agisce secondo criteri che non appartengono al cuore. Amate, tanto. Soprattutto, amatevi!

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