Vertigo: accomodatevi nell’universo in cui regnano tremito e sussulto

Vertigo: accomodatevi nell’universo in cui regnano tremito e sussulto

Qui tutto è immagine e simbolismo. Al di là delle parole, musica e spazi risultano perfettamente calibrati. Persino i costumi sono mirati. Del resto, si diverte – come gli è più consueto – il Maestro Hitchcock, a giocare con la cinepresa, e stabilisce, con quest’ultima, un rapporto morboso, malato, ambiguo, come l’atmosfera che si respira durante tutto il girato.

La donna che visse due volte: in molti lo conoscono con questo titolo, per altri è, sinteticamente, Vertigo. Che basta, da solo, ad intrappolarci nella morsa delle paure, delle incongruenze… a trasportarci nel labirinto che rappresenta la mente umana.

Chi lo definisce: ‘Il miglior film di tutti i tempi‘, in fondo, non sbaglia, invitandolo a scalzare, sul podio, come accaduto di recente, un altro Colosso del Cinema: Quarto Potere di Orson Welles.

Eppure le sorti di questa pellicola, interamente governata dalla suspence, non hanno goduto di un successo immediato. A rivalutarlo, negli ultimi tempi, la rivista britannica specializzata: Sight & Sound, che ne ha rivendicato l’autenticità e, insieme, la complessità e completezza del messaggio, ad oltre 50 anni dall’esordio.

Una sapiente miscela di passione, tragedia – che fa rimando a quella della Grecia Antica – ed, ancora, psicologia, che fa capo ad un ensemble di forme e colori, che non possono non condurci laddove il cineasta ha previsto per noi.

Indicazioni di ripresa, sul set

Basato sul romanzo – anch’esso dal tono noir – Sueurs froides. D’entre les morts di Boileau & Narcejac, è un film – quello in questione – ad alta tensione, capace di tenere, lungo il corso dell’intera durata, lo spettatore incollato al video. Qui, fotogramma dopo fotogramma, si attinge a piene mani nella psico-analisi e, a mano a mano che si va avanti, si aggiungono tasselli, frammenti indistinti. Per fornire la soluzione? Forse. Molto più probabile che sia, allo scopo di immobilizzare, confondere, depistare, illudere; un po’ come farebbe il gatto con il topo.

Per chi non l’avesse visto, non fraintendete, non è tutto mistero. Anzi. Gli intrighi, paradossalmente, sono svelati, ma le informazioni vengono sciorinate a sorpresa, inaspettate. Centellinate una via l’altra, affinché l’attenzione di chi guarda rimanga perennemente desta.

Hitch insieme a Stewart e Kim Novak

C’è ambiguità, questo sì, ed è palpabile sin dall’inizio, sotto le sembianze della ‘bionda’ Madeleine (alias Kim Novak). Per tutto il primo tempo ci tormenta l’idea di avere a che fare con una sorta di fantasma, con un fenomeno paranormale, con un caso riconducibile alla psichiatria. Ci si appella, inutilmente, al raziocinio, ripiegando sulla logica e sperando, in essa, di trovare conforto. Ma nulla da fare. La sfida è lanciata e, inconsapevolmente, siamo già agganciati.

Siamo tutti John Ferguson (James Stewart), vittima di un’infatuazione ossessiva per una donna enigmatica, illeggibile. Lo percepiamo che dietro c’è altro e non ci basta quel poco – o quel tanto – che dal regista ci viene rivelato. Hitchcock sparge indizi qua e là. Ci stuzzica. Di più, ci provoca, convinto della propria capacità di sedurci.

Poi arriva Judy e entra in scena, attraverso i suoi panni, il tema del doppio, già tanto caro alla letteratura. Così, siamo indotti a riflettere. Tracciamo le prime, timide ipotesi. Poi prendiamo coraggio e ci facciamo persuasi – alla stregua di un ipotetico Commissario Montalbano – che la soluzione sia lì, proprio davanti ai nostri occhi. Che, anzi, non si sia mai mossa e che noi, ciechi, abbiamo stentato a rintracciarla.

Meraviglia del talento, mentre le carte si svelano il brivido, anziché diminuire, aumenta e, con esso, la nebbia. Si risvegliano, nel cervello, interrogativi su interrogativi e ci invoglia, il tutto, a proseguire. Ci spinge a vedere cosa accadrà subito dopo. Se è ciò che immaginiamo, se avevamo ragione, Se anche John la penserà alla nostra guisa.

Nulla è come sembra, o magari si, ma gli specchi sono troppi per non perdersi, almeno un po’. E se, per un attimo trascuriamo Lei, Madeleine o Judi, in qualsivoglia modo la si intenda leggere, di rimando c’è Lui ed il castello di fobie che si trascina dietro, sin dall’infanzia.

Dunque, se di acrofobia si tratta, allora anche le scelte si fanno tattiche, lucidamente pensate per corrispondere al disegno finale. L’ambientazione è San Francisco, la città – cosiddetta – verticale. La percorre una topografia curvilinea, che ancor più ci si pone innanzi attraverso le spirali ipnotiche, che sin dalle prime immagini ci danno il benvenuto. Ma gli elementi visivi – in questo senso – sono tanti e si allineano, uno via l’altro, per inquietarci e suggestionarci. Persino il bacio tra i due protagonisti è frutto di una rotazione artificiosa. Un giro a 360 gradi, ottenuto posizionando gli attori su una piattaforma rotante.

In una delle scene più emblematiche si è optato per l’utilizzo del dolly zoom, una speciale tecnica che combina uno zoom – avanti o indietro – al movimento opposto della macchina, restituendo all’occhio di chi assiste una sensazione del tutto disarmonica. Volendo effettuare un paragone, è come introdursi negli occhi di un bambino. Tutto, dal suo punto di vista, appare più grande e terribile. Così è per noi, che ci ritroviamo a fare i conti con simbolismi e rimandi Junghiani. E, ovvio, neppure l’arredo è selezionato a caso. Persino i soggetti rintracciabili nei dipinti ci parlano… sembra come di esser capitati – nostro malgrado – nel giardino segreto di Alice. E Lewis Carroll, in fatto di stimoli distonici, la sapeva lunga.

E poi non mancano i rimandi – una volta rintracciata la chiave per interpretarli – alla figura di Pigmalione, al Petrarca e all’amore, idealizzato, per la sua Laura, persino alle Cime Tempestose di Emily Brontë. L’infatuazione si tramuta in passione, che poi cambia pelle per trasformarsi in penitenza.

E pure i colori, ad accompagno, si fanno rivelatori delle contraddizioni dell’anima.

Rosso e verde si ricorrono con insistenza ed evocano l’osceno, il proibito, respirano di sesso ma conducono ad un mondo onirico. Qui si narra di morte e redenzione, ed entrambi, in epilogo, si suggellano iconiche. La rappresentazione, adesso, è statica. Immobili lo siamo pure noi, attoniti assieme alla cinepresa che, dopo un turbinio di istantanee, ora, è ferma. Capitola, anch’essa, parallelamente alla verità.

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