Il fruscio del male suona dello schiocco di un frustino

Il fruscio del male suona dello schiocco di un frustino

Noi serial killer siamo i vostri figli. I vostri mariti. Siamo ovunque“. Avrei voluto fossero parole mie. E invece no, ma la questione è unicamente di ragione temporale.

Io sono Anna. Anna Rozalia Liszty. Dove sono nata? Non ridete, in Transilvania. Nel 1538 facevo ‘solo’ parte di una famiglia di origine borghese. Nel 1554 ero contessa. Vantavo legami di parentela importanti. C’era un vescovo, assai influente nel Paese… lo ricordo bene…

Sono Ungherese, dunque, l’avrete compreso. Ve lo ripeto perché, per me, in questa storia, conta. Litzty, in quel momento, volle significare una serie di privilegi, tributi, enormi possedimenti. Una ricchezza, tale da poter tranquillizzare una dinastia.

Avevo 15 anni. Era il 1598. Venni data in sposa. Lui era un Conte. A pochi passi dal 1600 tutto sembrava così perfetto… Poi iniziarono, piano piano… improvvisi attacchi di epilessia. Isteria, la chiamavano. Ed io lì, compresa in quel loro cruccio, che stentavo a capire. Per me, era unicamente disturbante.

Per loro i disturbi, invece, erano i miei. Mentali. Ero depressa e furiosa, tanto che, a partire dal 1610, il mutamento si considerò irreversibile. Shhh! Dicevano che fossi violenta.. Non gli credete!
Ebbene, lo ammetto, sì, rimasi vedova per due volte. Ma accadeva, no? Era consueto, a quei tempi. Poi arrivò il giorno in cui smisero. Smisero di accontentarmi. Non accettarono può di soggiogarsi alle mie voglie… Che malinconia. E che meschinità. Mi offende, tuttora, anche solo il ricordo.

Era il 1637 quando mi arrestarono. Avevo ucciso, dicevano. Nei dodici anni precedenti alla cattura, avevo fatto scempio, a loro asserire, delle mie cameriere. Otto… o nove… Uff.. Erano mie. Mia proprietà. Picchiate, secondo i resoconti, o fatte picchiare. A morte.

Ascotate. Sentite cosa scrissero di me: “la vittima aveva compiuto una mancanza del tutto trascurabile che, però, o aveva causato, o aveva coinciso con un attacco della ‘malattia’ della sua Padrona”. Malattia, capito? Io ero la Padrona.

La contessa diventava preda di una furia incontrollabile e iniziava a delirare, incitando chi la assisteva a punizioni sempre più dure, per poi unirsi personalmente a loro, finché l’oggetto della sua furia non restava senza vita. Solo allora si calmava, e talvolta cullava e accarezza il corpo, cercando di convincerlo a tornare in vita, o lamentandosi, in un misto di rabbia e di rimorso, che la sua serva l’aveva abbandonata”.

Certo che sì. Quale impudenza è mai quella che porta alla disobbedienza assoluta, al punto tale da dichiararsi in segno di negligenza definitiva? Era una fuga. Solo una vigliacca fuga del corpo, di fronte al dolore. Disapprovarla, per parte mia, era il minimo. Mi irritava. E mi lasciava affamata, di più.

E poi quel velo di ipocrisia… sapete perché decisero di fermarmi? Lo fecero, unicamente perché, in virtù dell’ultima ricorrenza, ad essere colpito, fu un’appartenente al ceto alto. Un membro della nobiltà minore… La chiamarono giustizia.

Allora, quasi piovuti dal nulla, intervennero fior di testimoni. Mi accusavano. Elogiavano il mio talento da erborista e da guaritrice. Poi, però, mi davano della strega. Sostenevano che praticassi riti di magia nera, inscenando spesso cerimonie. Virtuosismi dei quali, semplicemente, non sarebbero stati capaci.

Né sarebbero stati capaci di fuggire. Io lo feci. Mi divincolai, nel mentre del processo, rifugiandomi in Polonia.
Il 27 marzo 1638, il Re in persona mi concesse la grazia, permettendomi, persino, di conservare parte dei beni ereditati. Da quel momento, di me, non si seppe più nulla.

Vago nella nebbia. Mi lascio trasportare, ondivaga, dalle sensazioni. E osservo tutta quella schiera di poveri dannati. Non lo sapete che siete, comunque, destinati alla morte? Piccoli. Io vi ho offerto l’opportunità di elevarvi. Vi ho concesso la possibilità di donare un senso più intenso alla vostra misera esistenza. Vi ho offerto un perché, una ragione di sacrificio che vi sublimasse… Che se questo è un peccato è mio. Me ne assumo tutta la colpa. Ma non biasimatemi per il resto.

Voi non sapete. Lo spettro che si nasconde in fondo alla mia anima appartiene solo a me. E, questa scellerata sorte, non alleggerisce certo le cose.

Non mi giustifico e di cosa, poi, avrei a farlo? Ho ucciso. Ho ordinato di uccidere. Ma il dolore che mi abita dentro non si è ancora rimosso. Non si è placato. Mi accompagna, lungo le peregrinazioni. Mi conforta…

Io sono Anna. E mi confondo tra di voi….

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