Bella… come un fiore di Loto

Bella… come un fiore di Loto

C’era una volta… l’incipit è il più classico tra i classici ma, forse, questa storia, un po’, lo merita.

Nel 1948, un pressoché imberbe Anthony Colin Bruce Chapman, studente di ingegneria presso l’University College di Londra, modificò un’Austin Seven 1930, che più tardi prese il nome di Lotus Mark I. Dove avvenne la famigerata operazione ‘a cuore aperto’? Nel garage, di proprietà dei genitori della fidanzata, Hazel.

Collins, a bordo della sua Lotus Mark I

Un ragazzo promettente, si direbbe oggi. Giacché, conseguita la laurea, nel 1949, fece seguito il servizio militare nella Royal Air Force. Poi, un impiego presso la British Aluminium Company. Insomma, dopo aver servito la RAF e aver maturato una certa esperienza nel settore aeronautico, la curiosità verso i motori lo spinse ad approfondire l’argomento.

Cercava, come i migliori tra gli sperimentatori, prestazioni attraverso la leggerezza.

Del resto, non avrebbe mai potuto competere con la potenza dei motori Ferrari, dunque, iniziò ad attrezzarsi, nel raggiungimento di… ‘vie di fuga’. Fu il primo a realizzare quella che, ad oggi, conosciamo come Monoscocca. Telai – in pratica – con elementi in alluminio piegati, formati e rivettatti gli uni sugli altri, invece del consueto traliccio di tubi.

Una tecnologia che, unita alla funzione portante del motore, lo avrebbe reso pioniere, nel 1967, nell’invenzione di una tra le monoposto più affascinanti di sempre: la Lotus 49. Stiamo parlando di macchine da corsa, badate bene. Il Team Lotus esordì nel 1958, al Gran Premio di Monaco e, con esso, L’Azienda su cui si poggiava: la Lotus Cars.

Un piccolo/grande salto di qualità, per uno che le auto, quelle ad alte prestazioni, le guidava. Come pilota, aveva gareggiato per circa un anno con la Vanwall.

Un innovatore. E un intuitivo. Nella Formula Uno, introdusse il concetto aerodinamico di deportanza, montando sulle proprie vetture alettoni, anteriori e posteriori, per poter raggiungere il cosiddetto effetto suolo. Risultato possibile, anche al sigillo del flusso d’aria sottostante la monoposto, realizzato tramite bandelle in materiale plastico, dette minigonne. Strisciando a terra, queste ultime assicuravano la creazione di una depressione, al di sotto della vettura. Dunque, elevatissimi valori, in questo senso.

Lotus Exige

Ma torniamo a noi…  Nel 1952 – lo avevamo preventivato – Chapman fondò, insieme a Colin Dare, compagno d’università, la Lotus Engineering Ltd.

E, qui, storia nella storia, ci scappa un’altra ‘chicca’. Vale a dire che il nome, con buona probabilità, della vettura, sia attribuibile al vezzeggiativo con cui Chapman chiamava la sua Hazel. Le quattro lettere che compaiono a metà del logo? Le iniziali del suo nome, per esteso: Antony Colin Bruce Chapman.

La prima sede Istituzionale si trovava ad Hornsey, subito fuori Londra ma, nel 1954, già le mire si erno rese più ambiziose. Venne separata la sezione della Ditta rivolta alla produzione di piccola serie, da quella riguardante le competizioni. Il Team Lotus, per l’appunto.

Una squadra, attiva fino al 1994, ‘risorta’ nel 2010 e rilevata dalla Renault a fine 2015, in occasione del rientro della Casa francese nella massima categoria dello sport automobilistico.

Alla Lotus Mark VI, fece seguito la celeberrima Seven, minimalista ed efficace come poche, nel misto e in circuito. Il vezzo di contraddistinguere i modelli con una numerazione progressiva, oggi a quota 125 con la Evora, disegnò, in qualche modo, una sorta di gioco del lotto, cui corrispondono le auto che hanno scritto la storia.

E se la 14, la Elite, fu la prima ‘stradale’, la Elan era la numero 26; Europa la 54, a cui fecero seguito, tra gli anni Settanta e Ottanta – la Eclat e l’Esprit, oltre alla spuria Sunbeam Talbot Lotus, adatta anche ai rally.

La scomparsa di Champman, nel 1982 e la partnership sfortunata con De Lorean per la costruzione della DMC-12 (la rinomata auto di Ritorno al Futuro) condussero ad un susseguirsi di passaggi di proprietà, fino all’approdo nelle mani della malese Proton, tuttora proprietaria, nel 1996.

Lotus Elise

Tra i gioiellini in produzione, la piccola e ‘cattivissima’ Elise; la muscolosa Evora (che adotta un V6 Toyota elaborato), e la sportivissima Exige (Coupé o Roadster).

Tuttavia, Chapman fu anche un avanguardista nel business delle sponsorizzazioni. Per la prima volta, ebbe l’ardire di presentare una vettura, la cui livrea era stata totalmente dedicata agli sponsor. La Lotus 49B, infatti, non esordì con i colori storicamente attribuiti ai team inglesi (una tonalità di verde molto scura), bensì con i toni del marchio Gold Leaf della Imperial Tobacco. Pratica, che venne ripetuta negli anni ’70, con l’introduzione della livrea nera e bordata d’oro, in favore della John Pleyer Special (forse la più iconica tra le vetture Lotus) e, durante il decennio successivo, con l’adozione delle tinte caratteristiche del marchio di tabacchi Camel.

E pure dietro alla scomparsa di questo geniale talento si nasconde un mistero. Sussistono, infatti, dubbi sulle modalità del decesso, ambiguamente improvviso. Nel periodo immediatamente precedente, il ‘nostro’ tenne rapporti con il governo inglese e con John DeLorean, per l’appunto, allo scopo di ottenere cospicui finanziamenti per la produzione di una vettura sportiva estrema…

Formalmente morì, dopo essere stato sottoposto ad un interrogatorio da parte delle autorità britanniche, senza che mai vi fosse chiarezza a riguardo. Di più non è dato sapere. Rimangono, a testimonianza della sua esistenza, quattro ruote tuttora da sogno e tante fantasie, sepolte assieme ad Anthony, presso il cimitero parrocchiale di Santa Maria ad East Carleton, nel Norfolk.

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