Metropolis: tutti zitti. Parla Fritz Lang

Metropolis: tutti zitti. Parla Fritz Lang

Manca davvero poco. Quattro anni e poche briciole a quel 2026 profetizzato, nell’allora 1927, da una tra le menti più produttive del Cinema di inizio ‘900. Stiamo parlando di Fritz Lang e di quello che, a tutti gli effetti, è considerato il suo capolavoro.

Innanzitutto dovrei dire: io sono una persona che guarda. Recepisco le esperienze, solo attraverso gli occhi…“, ebbe a dire, a suo tempo, egli stesso di sé. Una dichiarazione di intenti, premessa ad una carriera, decisamente ampia.

Tra il 1919 e il 1960, il cineasta girò 15 film muti e 30 sonori, attraversando il melodramma, le avventure da feuilleton, la storia edificante, la leggenda, la fantascienza, lo spionaggio, il poliziesco talvolta anche psicanalitico; la commedia musicale e non, la testimonianza sociale, il western, il film resistenziale o di guerra… Poliedrico, al punto tale da poterlo considerare “più ancora di Murnau, il regista che afferma con decisione totale il ruolo creativo del metteur en scène, come coordinatore di tutte le componenti, finalizzate alla produzione dell’immagine filmica e come interprete di una specifica volontà di stile“.

Storia del Cinema così dispone. E così sia.

Ma ritorniamo a noi e ad un termine, oggi piuttosto abusato: distopico. Ecco, la realtà diretta da Fritz Lang si disegna, appunto, come tale, ambientata in un mondo solo fantasticato, in cui la differenza fra classi sociali diverta roboante. Al punto tale da condurre il giovane protagonista nelle sfere del sottosuolo, per verificare quel che accade, di persona.

E qui si incontra di tutto. Sofferenza, paura, abnegazione forzata. Si rievocano, pure, i temi delle Sacre Scritture. Si fa chiaro riferimento alla Meretrice di Babilonia e all’Apocalisse di Giovanni, anche se il tema portante resta la precarietà in cui verte la classe proletaria. Le discriminazioni e i soprusi a cui viene assiduamente sottoposta e la voglia di ribellarsi ad un sistema, alienante per qualsiasi essere umano, rappresentano il tappeto, su cui poggia l’intero girato. E poi c’è la dimensione fantascientifica, l’avanguardismo, l’ispirazione di un occhio – quello del regista – tutto protratto in avanti.

Pensate che la pellicola, più in là, avrebbe costituito fonte di ispirazione per film come Blade Runner, Terminator, Guerre Stellari.

Tant’è. L’idea di Metropolis prese le mosse da un’esperienza personale di Lang, impressionato dalla vista notturna di New York e del suo Skyline. E, di qui, si avviò la produzione, che vide impegnata la troupe per diciannove mesi. Trecentodieci giorni di riprese e sessanta notti furono necessarie, per produrre 600.000 metri di pellicolaErich Pommer e la casa di produzione UFA non badarono a spese per la lavorazione, assoldando 36.000 comparse.

Un impegno, che si protrasse dal 22 maggio 1925 al 30 ottobre 1926. Vennero girati – per la precisione – 620.000 metri di negativo e impiegati, secondo la pubblicità, 8 attori di primo piano, 25.000 uomini, 11.000 donne, 1.100 calvi, 750 bambini, 100 uomini di colore, 3.500 paia di scarpe speciali, 50 automobili. L’investimento superò i 5 milioni di marchi tedeschi di allora. Spese che, tra l’altro, non vennero coperte dagli introiti della distribuzione, tanto che la UFA si ridusse in bancarotta.

Ne derivò – e suon quasi di beffa – che ad acquistare la Casa di produzione fosse Alfred Hugenberg, editore e membro del Partito Nazista, trasformandola – in parte – nella macchina propagandistica delle Idee Naziste.

Il film, costruito come un’Opera lirica, si compone di tre atti: il Prologo, un breve Intermezzo e un Furioso, che segna le scene finali.

Dal punto di vista tecnico, possiamo considerarlo un lavoro di collaudata innovazione, per via delle tecniche di ripresa, strabilianti per l’epoca. L’introduzione – ad esempio – del cosiddetto effetto Schüfftan, dal nome del fotografo che ne aveva il patrocinio, che permetteva la creazione di mondi virtuali, a costi relativamente bassi. Si trattava di una proiezione di fondali dipinti, tramite un sistema di specchi inclinati a 45 gradi. Lo specchio poteva essere grattato in una o più parti, in modo che lo sfondo comparisse solo in alcuni punti della pellicola, curando nel dettaglio la profondità di campo. Nelle restanti parti si potevano, invece, utilizzare scenografie tradizionali e attori in carne ed ossa, con uno straordinario risultato veristico.

Ancora, nel film si registra l’introduzione, nel Cinema d’autore, del passo uno, ovvero le riprese effettuate per singoli fotogrammi. Non esistendo tecniche di editing adatte, le scene, con esposizioni multiple, sono state realizzate direttamente sul posto, riavvolgendo la pellicola e filmandovi sopra più volte. In alcuni casi, anche per trenta passaggi. Un solo errore – potrete immaginarlo – avrebbe rischiato di compromettere l’intero lavoro.

Potremmo dissertare a lungo sulla perfetta miscellanea tra storia narrata ed affetti speciali. Di fatto, il film, proiettato per la prima volta il 10 gennaio 1927 all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino non ebbe un gran successo di pubblico, almeno in Europa. Tuttavia, negli Stati Uniti, alla prima nazionale, al Rialto di New York, si presentarono oltre 10.000 persone.

Fu, per paradosso, tra i più amati da Adolf Hitler. Opinioni a parte, il valore culturale e tecnico lo ha condotto, nel tempo, a venir valutato come il primo film inserito nel registro Memoria del mondo, un progetto dell’UNESCO, nato nel 1992 per salvaguardare le opere documentarie più importanti dell’umanità.

“Metropolis è un capolavoro di cinema decorativo, la messinscena di un delirio“, c’è chi sostiene, ancora oggi. Resta, ciò non di meno, un’opera creativa e, a dir poco, rivoluzionaria. Provocatoria, surreale, moderna. Due ore, nella versione originale, dall’animo contemporaneamente classico e Rock. Antesignane di un qualcosa che avrebbe fatto seguito assai dopo, ripercorrendo le medesime strade, gli stessi corridoi comunicativi e simil voglia, a modo proprio, di celebrare la Settima Arte.

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