Che gioia sondare tra i meandri della mente umana…
Ce lo ha insegnato, anzi, dimostrato – appena qualche tempo fa, la Pixar. Il rinomato Studio di animazione cinematografica, in collaborazione – pure – con la Walt Disney Pictures, ha sfoderato dal suo cappello magico Inside Out ed è stato subito un successo. Segno, che rovistare tra le emozioni ci piace, eccome e, probabilmente, in un mondo teso al digitale, ci fa sentire meno soli.
Del resto, chi di noi non ha fatto i conti con gioia, tristezza, ansia, paura, disgusto e via dicendo? Logico, dunque, pensare di seguire e proseguire il filone, sia per quel che riguarda gli Stati Uniti, con un prevedibile numero due, sia qui da noi che – più modestamente? – abbiamo pensato di donare un ‘piccolo contributo’ alla causa.

Ecco, allora, uscire nelle sale Follemente, regia di Paolo Genovese che, a dire il vero, già in precedenza ci aveva abituati bene con Perfetti Sconosciuti, tanto per fare un esempio. A dimostrazione del fatto che il cineasta nutre una fatale attrazione – con tutta evidenza – nei confronti degli umani misteri, più o meno nobili che siano. Sempre a suo carico, ricordiamo Immaturi, The Place, Supereroi e tante altre pellicole, che spiegano un filone discorsivo coerente, lineare, ben eseguito.
Insomma, nulla da dire, fin qui. Molto, invece, da dire, sul film, uscito di recente nelle sale e già foriero di incassi. Merito, forse, del passaparola; di sicuro, risultato di un lavoro ben fatto, ben articolato e che vanta un cast, in grandissima forma. Edoardo Leo e Pilar Fogliati, tanto per cominciare, protagonisti, nelle cui teste gira il vociare di numerose e non sempre stabili presenze: Marco Giallini, Rocco Papaleo, Claudio Santamaria, Maurizio Lastrico e poi, di rimando, altri quattro cognomi ‘importanti’: Pandolfi, Giannetta, Fanelli e Puccini.
Pesante l’eredità da accogliere, per i nostri, dati i precedenti; non da poco, neppure la responsabilità di far ridere, far divertire il pubblico e, insieme, riflettere, in un processo identificativo che ci ritrova tutti, ugualmente, coinvolti. Ci riconosciamo nei personaggi e nei loro pensieri, negli stati d’animo, nelle paranoie, nelle note ironiche e persino in quelle ‘paracule’, come se si trattasse di noi stessi.
Ci ritroviamo, insomma, tra le mura di casa, ben protetti ed è normale, quasi inevitabile che, in un contesto del genere, ci si senta nelle vena di rivelarci spontanei. Ci si abbandoni alle risate e si presenti, qua e là, di soppiatto, persino qualche tentativo di applauso.

Galeotta, la cornice che accompagna i dialoghi. Un primo appuntamento fra tale Pietro e tale Lara a casa di Lei – e da lì, esattamente come in un set teatrale – non si scappa.
Primo al box office – pochi i dubbi, al proposito – e sale gremite, per mettere sul piatto le esitazioni, le titubanze, i ripensamenti, le paranoie di una prima volta carica – così vuole madre Natura – di aspettative. Che si ammanta di punti interrogativi, di speranze, del timore – pure – di rimanere delusi o peggio, di bruciarsi. Ancora, perdere le sicurezze tanto accuratamente conquistate, dover rinunciare a spazi individuali, per fare posto ad un eventuale ‘invasore’ estraneo e chissà…
E quel chissà pesa più di tutto. Polispichismo, che ci mette a confronto con il terrore di venire considerati banali, scontati o, peggio ancora, non abbastanza appetibili…
“Potenzialmente, abitano dentro di noi tante persone, quanti sono gli dei del Pantheon greco-romano. La mitologia descrive una psicologia proiettata negli archetipi dell’inconscio collettivo, come li ha chiamati Jung. Quelle che vediamo nel film sono le parti che coabitano nella psiche“. Ce lo confermano gli esperti.
Raffigurazione su pellicola dei molteplici fotogrammi che occupano e invadono, talvolta immotivatamente, la nostra capoccia, sedotta e viziata da un inconscio che, a più riprese, governa, domina, controlla, incurante persino del personale parere. Armati del libero arbitrio, tuttavia, possiamo “scegliere quale ascoltare, quale seguire. Ciascuna è un punto di vista. Abbiamo più possibilità di scelta e questo ci permette anche di sbagliare, di recuperare o di cambiare idea“. Come a dire: partiamo, alla conquista di uno spazio indipendente, in cui l’opinione che conta realmente, l’unica veramente importante, è unicamente la nostra.
Ecco, pertanto, in linea con i codici della narrazione cinematografica, presentarsi il conflitto. Ecco, di seguito, l’avviarsi di una pagina in cui, nodo dopo nodo, ognuno giunge al pettine. Inaspettato e coscienza, che fanno i conti con l’educazione, il moralismo, la cultura, l’esperienza pregressa, il senso del giusto. “L’io ha questo limite: se si disconnette dall’anima e perde queste parti psichiche e il loro pluralismo, poi non sa scegliere. A quel punto, impara a scegliere sempre nello stesso modo. Poi, quando la situazione cambia, si trova in crisi. E, quando ci perdiamo pezzi importanti, nascono le patologie. Le psicopatologie sono un frutto dell’era industriale e moderna, prima non esistevano. L’anima patologizza le parti che non riconosciamo“.
Così, tra una pseudo patologia ed un ritorno ad un Io leggermente più sano, ci si godono i 98 minuti di un girato frizzante e inaspettatamente divertente, poiché lo è a più riprese. Piacevole diversivo per un fine settimana piovoso; invito a ragionare su chi siamo, come siamo, cosa vogliamo o possiamo diventare.
Un’ultima analisi. Di certo vi sarà stato insegnato che non è un male copiare ma ‘bisogna saper copiare‘; o meglio, ‘Imitare, ma non copiare!‘. Ebbene, bravo Paolo Genovese, che la lezione deve averla imparata. Qui c’è l’idea, la frazione di un imput rubato ad altri ma, subito a seguire, sapientemente rivisitato ed elaborato. Tema doviziosamente eseguito. Niente affatto lento ma neppure esageratamente veloce. Ameni tratteggi di vulnerabile umanità e l’invito – sotteso e sottinteso – a perdonare noi stessi e il carico di fragilità che ci trasciniamo dietro, per concederci, se non altro, una possibilità. L’opportunità di un cambiamento che, magari, se tutto va come deve – liberi da orpelli e superflue analisi su noi stessi – riesce a regalarci almeno un briciolo di felicità. Voto: 10.
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