Via con vento? Tutta una faccenda di ‘labbra’…
Avete presente Via col vento? Eh già, chi di voi non conosce la pellicola, forse più celebre di tutti i tempi? Ebbene, potrei iniziare dallo spiegarvi perché George Cukor fu repentinamente rimpiazzato da Victor Fleming ma questa storia parte da molto prima. Ha radici profonde, inimmaginabili, qualora non si conoscano a menadito i fatti che accaddero, in origine.
Allora, preferisco narrarvi la vicenda dall’inizio. Prenderla larga, affinché possiate comprendere a fondo e farvi un’idea personale di quanto segue e delle inevitabili conseguenze.

Il mio nome, tanto per cominciare, è William Haines e posso considerarmi, a tutti gli effetti, figlio del secolo. Venuto al mondo il primo gennaio del 1900 in quel di Staunton, in Virginia. E’ qui che frequentai l’accademia militare e, a seguire, la scuola d’arte drammatica. Il lavoro a Wall Street come fattorino, appena dopo il diploma, mi annoiò presto. Così, all’età di 22 anni, partecipai ad un concorso per volti nuovi, patrocinato da Samuel Goldwyn. Si teneva a New York. Lo vinsi. Buffo, no? Il direttore del casting, Robert McIntyre mi riuscì a scovare, sorta di ago in un pagliaio smisurato, in mezzo a migliaia di aspiranti. Sotto la tutela artistica della Goldwyn Company ebbe, perciò, inizio la mia carriera nell’Olimpo degli Dei.

Giravo sei film all’anno e lo feci, per almeno sei anni di seguito. Recitai accanto a Joan Crawford,
Marion Davies, Mae Murray, Norma Shearer, Mary Pickford. Lavorai con registi del calibro di Victor Seastrom, Clarence Brown e persino King Vidor. Con una disinvoltura da fare invidia, passavo dalla commedia al dramma, rivelandomi tra gli astri più luminosi e attivi della costellazione MGM.
Il ruolo preferito dai miei ammiratori? Piacevo, soprattutto nelle vesti di giovanotto spigliato e affascinante, un tantino irriverente e spavaldo; una specie di maschietta, declinata al maschile. Il mio era un recitare frizzante e vulcanico, al pari di uno che si è fatto un’anfetamina di troppo. Pertanto, finiva sempre che la ragazza dei sogni mi dava una bella regolata.

In ‘Slide, Kelly slide‘, una commedia ambientata nel mondo del baseball, impersonavo, ad esempio, un pitcher pieno di boria; in ‘Spring fever‘, uno smargiasso campione di golf. In ‘Westpoint‘, un giocatore di football un po’ fanfarone; in ‘The smart set‘ rappresentavo, addirittura, secondo l’immagine che volevo concedere di me, “il dono americano allo sport del polo“. Un gran buon diavolo, insomma, sotto un’apparenza arrogante.
Un carattere, tutto sommato, mite, capace di adattarsi ai ritmi e alle esigenze del patinato universo hollywoodiano ma, al contempo, di collaborare e riscuotere il consenso di attrezzisti e macchinisti dei vari teatri di posa. Un giullare ben accetto da tutti che, di tanto in tanto, si arrogava qualche licenza poetica, come la libertà di scaricare una pacca sul culo di qualcuno; ma tant’è.

Certo, il risvolto gaio delle mie prestazioni – parlo di quelle cinematografiche – non era rimasto proprio indifferente ma si trattava di velate supposizioni; sporadiche, peraltro. Il che, non mi preoccupava. Non faceva testo, nel momento in cui fui il primo a fare i conti con ‘il parlato’. Esattamente. Il sonoro era approdato sul Grande Schermo e toccava farci i conti. Protagonista delle pellicole di ultima generazione, in cui il muto lasciava il posto a ben più vaste ambizioni e assai più spinti orizzonti. Le tecniche erano arretrate, vero. I microfoni venivano nascosti sotto i tavoli o inseriti dentro i vasi di scena; eppure, sotto i nostri occhi impotenti, il mondo cambiava. Era ‘il bis della notte del Titanic‘; almeno, a mio avviso.

Mi rammento ancora, alle prese con le lezioni di dizione e gli esercizi di agilità labiale. Quando dovetti pronunciare la seguente frase: “Sì, sono sorella Sissi, so sussurrare soavi salmi santamente seduta sotto sette sicomori soleggiati“, venni redarguito: “Il suo guaio, Sr. Haines, è che Lei è lento di labbra!“. Io? proprio Io, che mi spendevo a destra e a manca con la bocca, accusato di… “Beh, finora nessuno si è mai lamentato!”, risposi prontamente. Scatenai, ovvio, l’ilarità dei presenti.
A ben guardare, fu esattamente questo, la lingua lunga, il motivo delle mie inattese tribolazioni. Avrei dovuto stare zitto, tacere ma mai e poi mai avrei rinunciato ad una ‘stoccata di fioretto‘. Amor di battuta, che volete! Dunque, fu questo mio irridere l’interlocutore e forse l’eccessiva confidenza, che finì per allontanare Irving Thalberg, tra i fondatori dell’Academy. Colui che, in pratica, creò il Premio Oscar.

Lo accompagnavo, d’abitudine, affianco anche alla sorella Sylvia, sul lago Arrowhead, praticamente tutti i fine settimana. Ecco, mettiamola così. I modi evidentemente burloni e confidenziali ai quali ero avvezzo lo misero in imbarazzo, al punto tale da allontanarlo. Tempo a breve, Marion Davies avrebbe tenuto una Festa, lì, in quella sua casa enorme, fatta costruire apposta in suo onore da Hearst. Thalberg era presente con la moglie, Norma Shearer. I due erano vestiti in maniera identica, entrambi cadetti di West Point. Quando detti una palpata al retrobottega di Lui, commentando. “Oh, scusami tanto Irving, credevo fossi Norma!” decretai la mia eclissi.
Far fuori ‘il frociaccio‘, in breve, divenne esigenza comune. Del resto, era tempo di censura, per cui la ricerca di un’immagine inappuntabile era praticamente un dovere, a cui tutti eravamo chiamati ad assolvere. Bisognava raffigurare un uomo, in sostanza, virile, sportivo e dotato del senso dell’avventura; un amante focoso o, in alternativa – magari – un omone grezzo ma dal buon cuore – e poco importava se l’interessato, al di là del set, fosse un disgraziato. Quando, pertanto, sui giornali iniziarono a farsi vive una serie di allusioni, in riferimento ai miei gusti sessuali, venni prontamente fatto ‘fidanzare’ con Pola Negri. I fan poterono ammirare, sulle prime pagine dei rotocalchi più prestigiosi, persino le istantanee del letto matrimoniale, scelto per il trascorrimento della prima notte di nozze.

Tuttavia e nonostante le precauzioni, la situazione finì per collassare. Segretamente legato alla mia controfigura storica, tale Jimmy Shields, non perdevo occasione per infilarmi tra le lenzuola di qualche aitante giovane in uniforme. Divise, che amavo indossare nei miei film e adoravo, per contro, togliere loro, nelle serate di amplessi, ben più torbidi e infuocati. Galeotto fu, dunque, il marinaretto di turno, dieci anni più giovane di me, per la circostanza, e il malfamato alberghetto, in cui fece irruzione la Buoncostume.
Silurato a razzo. Questa fu la conclusione. Scacciato da Mayer al quale, evidentemente, non facevo più comodo e destinato ad incontrare porte chiuse. Emarginato o, se preferite, omo-arginato, tanto da costringermi a reinventarmi. E lo feci. Resuscitai, nei panni di arredatore, al punto tale da venire lusingato pure, con la proposta di una partecipazione in Sunset Boulevard. Declinai: “Sono soddisfatto del mio lavoro. E’ pulito, senza mascara sulla faccia“. Era, altresì, un impiego remunerativo, in virtù, anche, delle amicizie altolocate di cui mi potevo vantare: Carole Lombard, ad esempio, Joan Crawford; la stessa Marion Davies. Amiche, protese a sostenere la mia personale causa. Intime conoscenze, in tutti i sensi…

Una volta, Carole… “era in ritardo per il tennis e, per non interrompere la conversazione mentre si cambiava d’abito, si spogliò nuda di fronte a me, seguitando a guardarmi e a parlare di Hepplewhite e Sheraton. Rimasi di stucco. Non portava mai il reggiseno e, spesso, come quella volta, neppure le mutandine. Quando notò il mio sguardo sorpreso, disse la cosa più carina che si possa immaginare: Non lo farei mai, Billy, se pensassi che ti puoi turbare!“. La medesima che, in ordine del matrimonio con Clark Gable, avrebbe risposto ad uno sposo, sin troppo geloso: “Non ce l’hai qualche amica donna?“. “Certo! Ne ho due: Mitch Leisen e Billy Haines!“.
La dimora di Carole rappresentava il primo lavoro importante. Rifiutai, perciò, di farmi pagare. “Mi offrii di farle la casa gratis, perché sapevo che, se fosse piaciuta, gli affari sarebbero andati subito a gonfie vele“. Così, in barba alle tendenze dell’Hollywood modern, scatenai intorno al biondo platino della preziosa e remunerativa testolina una ridda di colori. Trasformai il salotto in un mare, che comprendeva fino a sei diverse tonalità di blu, arricchito da mobilia francese, in stile Impero. Il letto, enorme, era rivestito in raso dai toni prugna, moltiplicato dagli specchi a paravento che lo circondavano.
Siete curiosi? Ebbene sì, gli affari presero piede, al punto tale che mi concessi il lusso di progettare un modernissimo ufficio in quel di Beverly Hills, in mattoni e vetro filato e assunsi persino, al mio seguito, sei dipendenti. Mi dimostrai brillante, nel soluzionare i problemi relativi all’estetica domestica, relazionandoli al senso pratico, richiesto dall’esercizio a proiezioni private. Tanto mi spinsi oltre, per talento, da curare persino l’arredamento del Mocambo, un Night Club che, con i suoi uccelli in vetrina e i numerosi addobbi in stile veneziano, avrebbe attirato le simpatie di molti.

Allo stesso modo, la conoscenza con Marion Davis fu tra quelle che seppero regalarmi di più. L’avevo conosciuta nel 1928, durante le riprese di Show People. Lei interpretava la parte di Peggy Pepper, una spericolata ragazza che giunge ad Hollywood a bordo di una vecchia Ford e viene corteggiata da un giovane attore cinematografico, specializzato in torte in faccia. A dirigerci, King Vidor, per quella che può considerarsi, forse, la nostra interpretazione migliore.
Io e Jimmy diventammo, pertanto, ospiti fissi a San Simeon. Hearst era timido e schizzinoso con gli amici di Marion ma su di me sorvolava. Chiudeva un occhio, tanto da lasciarmi presenziare anche nella memorabile serata del 1933, in cui George Bernard Shaw, durante l’unico viaggio negli Stati Uniti, fu suo ospite. Rammento ancora il party, in onore di Elinor Glyn. La signorina in questione si trovava accanto alla piscina e teneva banco, in mezzo ad un gruppo di ospiti, sputando sentenze con la consueta boria. Ad un tratto mi guardò e dichiarò che io, decisamente, non possedevo il nonsoché necessario, per quel di Hollywood. A quel punto, lo scimpanzè addomesticato di Hearst, Jerry, che aveva ascoltato il discorso, defecò e pensò bene di gettarle l’ingombrante quantitativo di immondizia addosso. Mentre Elinor si ripuliva, freneticamente, gli scialli, i veli e il turbante, le risposi: “Tu, invece, il nonsoché ce l’hai, fin sopra i capelli!“.

Nel 1925, sotto la mia ala protettiva, intraprendeva i primi passi di una brillante carriera una certa Lucille Le-Sueur, appena approdata alla MGM. La presentai a Carey Wilson, che la scelse per un breve cortometraggio. Stava per sorgere la stella di Joan Crawford. Quando Franchot Tone, una sera del 1932, si mise a raccontare degli aneddoti scandalosi che la riguardavano, “Aspetta di vederla, prima di parlarne male“, suggerii, “perché sono sicuro che, quando la conoscerai, te ne innamorerai!”. Una profezia. Si sposarono, dopo alcuni mesi di convivenza segreta nella casa di Lei, a Brentwood.

Abitazione, ovvio, arredata da me. L’esclusivo set, dove interpretava Mammina cara per i suoi fan, al cospetto di giornalisti e fotografi. C’era una stanza, però, la più grande di tutte, rigorosamente privata. Il suo laboratorio, in vetro e cromo, tanto simile ad una sala operatoria. Era, in verità, il suo spogliatoio, con tanto di lettini per il massaggio, asciugacapelli, appendiabiti circolari, cassetti in vetro e scaffali, tanti quanti ne bastavano per contenere le sue 200 paia di scarpe. Le luci erano violente e sgradevoli, volutamente, in maniera tale che, se fosse apparsa ben truccata già lì, avrebbe potuto affrontare qualsiasi altro obiettivo. Nella villa eravamo ben voluti ma non dappertutto era così…
La notte del 3 luglio 1936, a tal proposito, si rivelò indimenticabile. Dovete sapere che Noi omosessuali eravamo uomini ombra, costretti ad un’esistenza riservata. Attori, ballerini, scenografi, parrucchieri e truccatori, eravamo tutti ‘casa e cessi‘, consentite l’espressione. Nell’industria del Cinema occorreva velarsi, per sopravvivere. Camminare con circospezione tra i viottoli della città delle Cianfrusaglie. Per tale ragione, avevo affittato una casa in Moon-stone street, a El Porto, un’appartata località balneare, appena a sud di Manhattan Beach. Lì mi avevano raggiunto, per il periodo delle vacanze estive, alcuni amici.

Eravamo la rappresentazione di un microcosmo discreto, anche se un po’ sculettante. Non molestavamo bambini, non tentavamo di irretire i mariti locali. Tuttavia, la contea di Orange era, già negli anni 30, un coacervo di reazionari destrorsi, la Legione Bianca, versione sud californiana del Ku Klux Klan. Dunque, l’aliena femminilità di cui ci facevamo bandiera, fu inevitabilmente vissuta come una minaccia.
Possedevo, all’epoca, un barboncino: Lord Peter Whimsy. Lo avevo fatto dipingere di lilla e occupava, nel mio cuore, il posto di un figlio. Probabilmente, fu proprio il mio fedele Fido a scatenare la controffensiva degli aborigeni. La sera di cui vi accennavo in precedenza, stavamo per salire in auto, quando comparve una sequela di uomini incappucciati e vestiti di bianco. Mi presero a pugni, imbrattarono l’auto di uova e pomodori. Lord Peter fu preso, a sua volta, a calci e svenne. Io, me la cavai con due occhi pesti, il labbro tagliato e il naso sanguinante. Fummo scaraventati in macchina: Io, il cane, Jimmy e i pochi ospiti del momento e rispediti ‘da dove eravamo venuti‘ o, se preferite, il nostro era un biglietto di sola andata, direzione Inferno… Eravamo stati fortunati. Viste le premesse – credetemi – poteva andarci molto peggio ma mai più facemmo ritorno. Dal canto mio, cominciai a nutrire una certa avversione per lenzuola e coordinati bianchi. Potete immaginare perché.

Se vi state domandando le motivazioni, dietro il tentativo di mattanza, è presto detto.
Tutto era partito da un episodio, che potrei definire ridicolo ma che – ahimè – riguardava un bambino. Un bimbo di appena sei anni, Jimmy Walker – il nome lo ricordo ancora, perfettamente. Semplicemente, banalmente, il piccolo, incuriosito dal cane, si era fermato a giocare e si era protratto in nostra compagnia, lungo l’intero pomeriggio. Jimmy – il mio, Jimmy – incosciente e decisamente ingenuo, gli aveva donato, in regalo, prima di congedarlo, sei cents. Un gesto carino, nulla di più che, tuttavia, venne equivocato.

Vissuto, come una manovra di adescamento e, nonostante l’erede della famiglia Walker, immediatamente trascinato al cospetto della Polizia, nulla ebbe a che ridire a nostro carico. Ripeto, benché il caso venisse archiviato nell’immediato, per insufficienza di prove, nulla poté evitare il montare della rabbia, da parte degli aborigeni stolti e ignoranti, paurosi persino della loro stessa ombra.
Noi eravamo i ‘malvagi‘ e, perciò, dovevamo pagare.
Per fortuna, non sempre le cose andarono nello stesso modo… Nel 1969, per la precisione il 22 novembre dell’anno in questione, il New York Times ebbe a pubblicare un articolo, a mezza pagina. Si intitolava: ‘La residenza dell’Ambasciatore, sfolgorio da un milione di dollari‘. In primo piano, l’abitazione di Walter Annemberg, ambasciatore – appunto – in Gran Bretagna per gli Stati Uniti che, per rifare l’appartamento, aveva speso la bellezza di 1 milione di dollari e impiegato quasi 1 anno di tempo. Un’impresa, alfine, talmente sfarzosa, che si avevano remore, persino nello sporcare il portacenere. Ai giornalisti, giunti da ogni parte del mondo, l’uomo prontamente ripeteva, tutto tronfio: “Abbiamo lavorato in gruppo, sotto la direzione di Haines!“. Immaginate in me l’orgoglio. Immaginate – pure – la pubblicità che ne ricavai… D’altronde, la collaborazione con il magnate della stampa di Filadelfia rappresentava una seconda volta.
Avevo già provveduto, in precedenza, alla sua Sunnyland, una tenuta nel deserto di Cathedral City, nei pressi di Palm Springs. Ci erano voluti cinque anni, per mettere a punto l’immenso Solarium, con orchidee, pietra lavica del Messico, pavimenti in marmo rosa del Portogallo e stanze, delimitate dalle piante.

Vi dirò di più: anche la riabilitazione di Winfield House, la sua residenza in Regent’s Parck, a Londra, donata al Governo americano da Barbara Hutton nel 1946 e depositaria di opere che portavano la firma, nell’ordine, di Monet, Gauguin, Cézanne, Van Gogh, Renoir, Lautrec mi venne affidata, in piena fiducia. Si rivelò il risultato più felice di questa mia inattesa e brillante ennesima vita…
L’anno dopo la mia dipartita – me ne andai nel 1973, colpa di un cancro – anche Jimmy decise di ‘abbandonare’. Lo fece volutamente, spontaneamente: “Senza Billy sto male!“, lasciò scritto ma torniamo a noi.

Meglio, torniamo a George Cukor. Rammentate, in principio? Dunque, George diede, nel 1937, una festa. Una meravigliosa serata in mio onore, dal momento che avevo provveduto ad arredare anche casa sua. La stessa sera, chi era lì non può non ricordare, in cui John Barrymore, ubriaco fradicio, svomitazzava sul raso del divano antico, proprietà del mio amico.
Già, un amico, George. Uno… di Noi ma Lui, se non altro, era discreto. Non una ‘criptochecca‘, forse ma capace, comunque, di mantenere il riserbo su un argomento, sul quale era più conveniente soprassedere. Insomma, ve la faccio breve. Negli ultimi anni di vita – sapete, quando oramai non si ha più nulla da perdere? – Cukor vuotò il sacco. Raccontò della sua sostituzione con Victor Fleming, su richiesta esplicita di Clark Gable.

Era convito, costui, che il regista sapesse dei servizietti di bocca che, ad inizio percorso lavorativo, quando ancora era solo una comparsa, gli avevo elargito. Segreto, quest’ultimo, che doveva rimanere tale e preoccupava l’attore. Clark odiava George perché sapeva e il solo pensiero di venire diretto per mesi proprio da chi avrebbe potuto distruggerlo in un solo istante gli riusciva insopportabile.
Ecco qui spiegato: una tra le sostituzioni più eclatanti della storia del Cinema, sintetizzata nella mia passione un po’ avventata per i maschili attributi e che non mi si venga a dire che ero ‘lento di labbra!’
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