8 marzo: omaggio a tutte noi, combattenti dall’animo garbato…
“Di me non devo dire niente! Ma di me fino ai miei diciassette anni, sì. Avvocato, conoscete quei bassi… A San Giovanniello, ai Vergini, a Forcella, ai Tribunali, al Pallonetto! Neri, affumicate… dove d’estate non si respira per il caldo perché la gente è tanta, e d’inverno il freddo fa battere i denti… Dove non c’è luce neanche a mezzogiorno… Pieni di gente! Dove è meglio avere freddo che avere caldo…
In uno di quei bassi, al vicolo San Liborio, abitavo io con la famiglia mia. Quanti eravamo? Una folla! Io non so che fine ha fatto la mia famiglia. Non voglio saperlo. Non lo ricordo…
Sempre con le facce girate, sempre in urto l’uno con l’altro… Andavamo a dormire senza dirci: «Buonanotte!». Ci svegliavamo senza dirci: «Buongiorno!»
Ricordo solo una parola buona, che mi disse mio padre… e, quando me la ricordo, tremo ancora… Avevo tredici anni. Mi disse: «Ti stai facendo grande, e qui non c’è da mangiare, lo sai?» E il caldo!… Di notte, quando si chiudeva la porta, non si poteva respirare.
La sera ci mettevamo intorno alla tavola. Un solo piatto grande e non so quante forchette. Forse non era vero, ma ogni volta che mettevo la forchetta in quel piatto, mi sentivo osservata. Mi sembrava di rubarlo, quel cibo!
Avevo diciassette anni.
Passavano le signorine vestite bene, con belle scarpe, e io le guardavo… Passavano sottobraccio ai fidanzati. Una sera incontrai una mia amica, che non conobbi, talmente stava vestita bene… Forse, allora, tutto mi sembrava più bello… Me disse: «Così… così… così…» Non ci dormii tutta la notte… E il caldo… il caldo… E conobbi te! Là, ti ricordi?…
Quella «casa» mi sembrava una reggia…
Una sera tornai al vicolo San Liborio, il cuore mi batteva forte. Pensavo: «Forse non mi guarderanno in faccia, mi metteranno alla porta!» Nessuno mi disse niente. Chi mi dava la sedia, chi m’accarezzava… E mi guardavano come se fossi una superiore a loro, che dà soggezione…
Solo mamma, quando andai a salutarla, aveva gli occhi gonfi di lacrime… Non ritornai più a casa mia”.
Potremmo fermarci qui. Perché Eduardo le parole sapeva usarle a dovere. Il Maestro De Filippo, in omaggio ad una sorella amata e stimata, aveva appena tracciato, così facendo, alcune tra le pagine più intense della storia del Teatro.
Una commedia in tre atti, interpretata da Titina, sì, ma anche da tante altre. Una schiera di donne che, sul palco, oppure attraverso lo schermo, hanno scelto di concedere tutte se stesse per dare lustro ad una storia intensa e emblematica. Un racconto, in fondo, senza tempo, quello che riguarda Filumena Marturano.
Quale femmina non impara, negli anni, cosa sia il dolore? Non si trova a dover fare i conti, prima o poi, con il buio? Con l’irrisolutezza di maschi testardi, viziati che, inconsapevolmente o meno, feriscono e i segni restano, nel tempo, a sostegno della sofferenza. Stanno lì a sottolinearla, irrisolubili.
Eppure non c’è rancore. Forse ironia, quella sì, sarcasmo. Il dolore sceglie lui come meglio mascherarsi. A volte lo fa sotto un’apparente strato di freddezza che, al contrario, sottintende solo un’immensa voglia di piangere. Ma quelle lacrime, lo insegna Lei, non vengono, se non nel momento in cui si percepisce, finalmente, che si ha qualcosa da perdere. Se non quando, dopo un tempo infinito, tornano a fare i conti con la felicità…
A tutte le donne, che possiate piangere e commuovervi, ancora, presto!
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