Legumi: provvidenziali, salvifichi, buonissimi
Con l’andare dei secoli, si sono conquistati la nomea di carne dei poveri. Del resto, rappresentavano la sola fonte di energia per i ceti sociali meno abbienti. Quelli che non potevano permettersi le ricche libagioni della nobiltà e cercavano l’adeguato apporto proteico, proprio nei legumi. D’altronde, facili da coltivare e da cucinare, si sono rivelati provvidenziali, questi ultimi, non solo per le plebi, ma anche per le classi più agiate, capaci di assicurare sopravvivenza, in tempi di carestie o di siccità.
UN’ANTOLOGIA LUNGA QUANTO LA NOTTE DEI TEMPI…
Le lenticchie erano comunemente consumate ai tempi della Roma Imperiale e l’uso – pensate – era talmente diffuso, che i Romani avevano organizzato un fiorente commercio marittimo dall’Egitto, a partire dal 525 a.C. I prodotti arrivavano dall’antichissima Pelusio sul Nilo, patria, secondo un’antica leggenda, del prode Achille. Da qui, partivano navi, dirette a Roma e in Grecia.
E, non solo lenticchie. Resti di piselli risalenti a circa settemila anni prima di Cristo sono stati rinvenuti in Ucraina; lupini e lenticchie, presso tombe faraoniche della XII dinastia.
Riguardo a fave e legumi che presentano due cotelidoni, con funzione di nutrizione dell’embrione durante la germinazione, la casta sacerdotale egizia e la scuola pitagorica greca avevano elaborato, addirittura, una originale teoria, che riportava al mondo dei morti e a pratiche esoteriche. L’unione dei due elementi all’interno di un solo involucro veniva considerata, in pratica, proposito di complementarietà tra la vita esterna (essoterica) e la vita nascosta (esoterica) e, comunque, della continuità tra la vita e la morte.
E, se Plinio li esaltava, per il loro alto valore nutritivo e per la virtù di infondere tranquillità all’animo, Lucio Giunio Columella, tribuno in Siria nel 34 d.C., autore del trattato De re rustica, nei suoi dodici volumi ne sottolineava valori e proprietà. Così, si poteva consumarli crudi, ma anche cotti. Catone consigliava di condirli con aceto, oppure in preparazioni di minestre, mischiati a grasso di maiale avanzato. Columella e Varrone andarono anche oltre: scoprirono, già allora, che l’impiego delle piante divelte dopo il raccolto, mescolate al terreno, lo arricchivano di proprietà nutrizionali, importanti per le seminazioni dei campi. Abitudine, che divenne largamente diffusa e codificata più in là, nel Medioevo e che, ancora oggi, viene praticata.
LA RISCOPERTA E LE ONORIFICENZE
Dopo un periodo ‘buio’, nell’800, il riscatto risale agli anni ’70, con la scoperta dei benefici della dieta Mediterranea.
“Farro, frumento, orzo, riso integrale, segale e amaranto da una parte. Piselli, ceci, lenticchie, fave dall’altra“, si legge, in un documento della Fondazione Veronesi. “Messi insieme e conditi con una giusta dose di olio extravergine di oliva, costituiscono un piatto che sazia e fa bene all’organismo, proteggendolo dall’insorgenza di malattie croniche, cardiovascolari e da alcune forme tumorali. Un mix di ingredienti che, così completo, non si trova in altre fonti alimentari e permette, in assenza di patologie, di evitare il ricorso a farmaci e integratori“.
Insomma la salute sboccia a tavola, questo ci insegna la storia. In aggiunta alle vitamine e a diversi composti bioattivi contenuti negli alimenti in argomento, d’altronde, buona parte dei meriti sono da ascrivere alle fibre che, come ben sappiamo, aumentano il senso di sazietà; regolano la funzionalità intestinale; aiutano a mantenere sotto controllo i livelli di glicemia e colesterolo del sangue e mantengono l’equilibrio della flora batterica intestinale.
A tal proposito, la FAO ha ritenuto opportuno riconoscere esplicitamente che la memoria storica, connessa ad esperienze attuali di coltivazione, ha un valore importante anche come parte integrante dell’agro biodiversità, perché: “è l’attività umana che forma e conserva questa biodiversità (FAO, 1999) e l’uomo fa parte del mondo biologico“.
MARACUCCIATA DI LENTISCOSA
Ecco, allora, che il Maracuoccio di Lentiscosa, tra i più antichi, rari e dimenticati legumi italiani, si colloca in questo ambito, in maniera pressoché naturale.
Il ceppo di origine è, infatti, il medesimo della cicerchia. Dalla dimensione squadrata e dal colore, che può variare dal verde scuro al marroncino, al rossastro, spesso screziato o marmorizzato, il gusto si presenta, in genere, amarognolo. Caratteristica, che si evince già dall’etimologia del nome: Mara, che sta a significare amaro, e Cuoccio, di derivazione greca, che vuol dire baccello.
E, ormai da lungo tempo, la coltivazione in questione ha preso piede nella frazione collinare del comune di Camerota, nella parte meridionale del Parco Nazionale del Cilento, sui terreni più soleggiati e calcarei. Rappresenta l’alimento di riferimento per il bestiame, ma anche, tuttora, fonte proteica per la popolazione.
ATTESTATO SLOW FOOD
Attualmente, la sua coltivazione si è ristretta a soli tre ettari, da parte di sei famiglie di agricoltori e persino Slow Food è corso in suo aiuto, annoverandolo come presidio da salvaguardare, opportunità – tra l’altro – di lavoro, per i giovani del paese.
Il prodotto, si tende a precisare, non prevede l’uso di fertilizzanti, né diserbanti e viene seminato, di norma, tra i mesi di novembre e dicembre.
Le piantine rimangono molto basse, simili a quelle dei ceci, producendo un piccolo baccello. Poi, a fine giugno, si estirpano e si adagiano su di un telo; quindi, si battono, facendo uscire i semi. Da questi, essiccati, si produce la farina, che viene consumata sotto forma di polenta, miscelata con altre qualità. La proporzione, sovente, è di due a due.
Ed è proprio da questa lavorazione che si ottiene la Maracucciata, tipica polenta locale, coacervo di antichissimi sapori. Una pietanza, dal perfetto equilibrio nutrizionale e piatto simbolico cilentano, in unione ai Cicci maritati o Cuccia, altra prelibatezza del posto, da preparare, secondo tradizione, in occasione delle giornate simboliche o propiziatorie (a inizio primavera, il primo di maggio, il giorno dei defunti).
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