Albini, Signore della moda
Sono colui che ha inventato il prêt-à-porter in Italia. Punto.
Così, per raccontarmi, non mi perdo in chiacchiere. I couturier francesi e, con essi, l’haute couture dominavano, ai miei tempi. Anzi, monopolizzavano la moda. Ebbene, io mi sono preso la briga di operare una vera e propria rivoluzione, al riguardo. Già, ma il boom economico ti ha aiutato, ti ha – come dire – spianato la strada, potreste replicare. Lo ammetto, sì, è così e allora? Mi sento di rispondervi.
A cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 sono riuscito – e ne vado fiero – a dar vita a qualcosa di inedito. Non solo capi a ripetizione, indossabili nelle diverse taglie da più persone ma, per raccontarla tutta, ho operato a beneficio della figura dello stilista, promuovendone il lavoro, sempre a contatto con inedite realtà e nuovi brand. A metà strada tra la clientela e chi ottempera alla domanda e, per farlo, ci mette la faccia e il nome. Direttore creativo (mi si etichetterebbe oggi), con il compito di disegnare intere collezioni.
Dimenticavo: mi chiamo Walter. Walter Albini e sono nato a Busto Arsizio, il 3 marzo 1941. Un sognatore – capite – del resto, come potrebbe non esser così, dato che sono del segno dei pesci? Avevo sedici anni quando mi sono iscritto all’Istituto d’Arte, Disegno e Moda di Torino, primo studente maschio – io – in una scuola prevalentemente riservata ad allieve di sesso femminile. Un pioniere, non trovate? Amavo talmente tanto tenere la matita in mano, che cominciai immediatamente a collaborare con giornali e riviste, mettendo in campo quello che veniva riconosciuto, già allora, come un talento.
Illustratore e grafico per varie pubblicazioni di moda, realizzavo bozzetti destinati alle sfilate di Roma, prima; poi di Parigi. Ah… la Ville Lumière, per un tratto della mia esistenza ci ho soggiornato ed è qui che mi sono letteralmente innamorato di colei che, più che una donna, identifico come un’icona. La mia musa… regina di stile e filosofia: Coco Chanel, Gabrilelle, destinata ad influenzare, da quel momento, ogni mia iniziativa grafica successiva.
Nel 1963, la mia prima collezione. Lavoravo, in quel periodo, per Gianni Baldini. Poi, conobbi Mariuccia Mandelli – scusate, forse molti di voi la conoscono esclusivamente come Krizia. Tant’è. Mi trasferii presto a Milano. Nella Capitale meneghina, al suo fianco, rimasi tre anni. Da cosa nasce cosa, sapete? Fu, perciò, nell’ultima stagione che ebbi modo di approcciarmi a Karl Lagerfeld. Era giovanissimo e con una carriera, al tempo, tutta ancora da scrivere. Rappresentò, tuttavia, l’opportunità per esplorare materiali e tecniche diverse, dalla maglieria allo studio dei filati, dalla produzione alla ricerca dei tessuti.
Nei primi anni ’70 – senza falsa modestia – venivo annoverato tra i designer più richiesti qui, nel Belpaese. Prestavo servizio per l’industria manifatturiera e, intanto, ad occhi bene aperti, sognavo una linea tutta mia. Perché no? E, se pensate che fossi eccessivamente ambizioso, allora sappiate che, in tale direzione, mi diedi presto da fare. La fortuna va cercata, d’altronde, o no? Non si era mai fatto prima, ma riuscii a mettere d’accordo cinque produttori di settori diversi, allestendo una sfilata che portava il mio nome, protagonisti, una serie di vestiti atti a definire, come mai prima, il concetto di total look.
Abbandonai lo storico Palazzo Pitti di Firenze, a favore di Città della Madunina, dando – in senso concreto – l’avvio a sfilate che, più in là, si ripeteranno anche a Londra. Proprio in virtù di quell’occasione, la giacca destrutturata fu promossa a pilastro della moda. La linea principale presupponeva un’immagine forte, le vendite rimanevano limitate e c’era, a supporto, una ulteriore collezione, dotata di un appeal commerciale molto più ampio.
Un passaggio di 10 anni, per arrivare, nel 1973, a riconoscimenti pieni, meritati, a livello Internazionale. Mi distinguevo come uno tra i maggiori stilisti italiani, accanto ai contemporanei Giorgio Armani, Gianni Versace. L’età dell’oro, insomma…
Reinventai, del resto, anche il modo di diffondere i contenuti e fare pubblicità, utilizzando solo disegni e stabilendo il concetto di groupage nelle riviste di settore. Erano i fornitori a pagare le pagine, non più noi creativi. Non eravamo ancora negli anni ’80, che già la mia matita si era prestata e messa al servizio per Billy Ballo, Cadette, Cole of California, Montedoro, Misterfox, Glans, Annaspina, Paola Signorini e Trell. Forse, a sentirle ora, non vi dicono niente, ma vi assicuro che allora si trattava di Case accreditate e largamente valutate, nell’ambiente. Mi piaceva, io antesignano, l’idea di partnership, il fatto di cercare o inventare nuovi metodi di produzione, tessere rapporti ‘diversi’ tra disegnatori e imprenditori. Chiamiamole pure ‘cooperazioni tra menti creative’, che trovarono credito soprattutto – volendo fare qualche nome – con Etro, per quel che riguarda le stampe; piuttosto che con Ferré, nell’ambito della gioielleria.
Arriviamo, proseguendo, sino a Giuseppe Della Schiava. Siamo nel 1975: l’epoca di Guerriglia Urbana, India e Folk. Abiti, una folla di abiti a tratteggiare la donna – e l’uomo, sì, anche quello – di quegli anni. Il che, facilmente trova sintesi nel termine unisex.
Le mie creazioni le presentavo al pubblico nelle maniere più eccentriche. Amavo stupire e, talvolta, rimanevo sorpreso io stesso. Pertanto, potevano assumere l’allure di mostra fotografica in una galleria d’arte, oppure tessere un filo ininterrotto con i tradizionali défilé. Viaggiavo e, nel frattempo, traevo ispirazione. Le continue esperienze divennero la proposizione per arte, moda, design, costumi teatrali, Cinema… Il mio era un mondo in fermento. Un universo, costellato di accenti.
Cavalcai l’onda per dieci anni ancora, fino al 1983. Poi, mi spensi, il 31 maggio, in quel di Milano. Avevo appena 42 anni, a ben pensarci, ma qualcosa di fondamentale lo avevo lasciato. L’eredità del Made in Italy era salva, in sfida alla predominanza francese, per quanto concerneva l’alta moda. Avevo inventato – forse senza neppure rendermene conto – il ready to wear.
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