Bikini: storia di un due pezzi che ha fatto storia
Inutile dire che, ad oggi, nessuna donna, potendo, rinuncerebbe al suo due pezzi. Quel capo che, ‘vedi non vedi’, va a sottolineare i punti forti. Cela – seppur si tratti di un misero lembo di stoffa – a seconda del modello, quel che non conviene far vedere e si fa spesso complice di una tintarella da fare invidia.
Signori e Signore, ecco a voi il Bikini, amato persino dalle bambine che, forse, ancora non ne avrebbero bisogno. Parte dei desiderata di un guardaroba evidentemente complesso ma, che volete, nobless oblige…
Colpa… della Guerra. Anzi, per esser precisi, colpa del Secondo Conflitto Mondiale quando, nel 1946, venne sganciata la Bomba Atomica. Ebbene, a ben guardare, la portata rivoluzionaria fu, più o meno, la stessa. In quanto ai danni – collaterali e non – non sta a noi sentenziarlo. Simbolo, insomma, allora – e, in certo modo, ancora oggi – di emancipazione e di coraggio, che non rinuncia mai alla personale evoluzione e si propone ogni estate sotto nuove sembianze. Tagli e colori rinnovati, linee ripensate, secondo un processo che lo vuole costantemente aggiornato, rivisitato, riscritto perché… in fondo, a noi piace così.
Dicevamo, quindi, Secondo Conflitto bellico. Tuttavia, a livello iconografico, se ne ricavano le tracce già nei celebri mosaici di epoca romana della Villa del Casale, in Sicilia. L’affresco raffigura una serie di ragazze impegnate in giochi atletici. Ovvio, nulla di paragonabile al costume per come lo intendiamo oggi ma – dobbiamo ammetterlo – ci assomiglia tanto…
La sua storia è, dunque, decisamene antica ma ci volle Coco Chanel perché, negli anni venti, si cominciassero a sdoganare abitudini, altrimenti inarrivabili.
Poi, venne il 1932, anno in cui Jacques Heim disegnò i tratti di un qualcosa che, nel tempo, avrebbe suscitato parecchio clamore. Ridottissimo nelle dimensioni, l’Atome – questo il nome – venne pubblicizzato come il costume più piccolo al mondo. Considerato, allora, in un mondo non ancora equipaggiato, oltraggioso e indecente, nonostante ancora coprisse l’ombelico.
La vera rivoluzione va, però, datata 5 luglio 1946, grazie alla geniale intuizione di Louis Réard. Si trattava – forse non tutti ne sono al corrente – di un ingegnere occupato nel settore automobilistico che, un bel giorno, decise di rilevare l’attività di lingerie inaugurata dalla madre. In visita in quel di Saint Tropez, si rese presto conto che le donne avevano, spesso, d’abitudine arrotolare i propri costumi da bagno, cercando di catturare centimetri in più, a favore dell’abbronzatura.
Fu la suddetta constatazione a renderlo audace, giungendo alla conclusione che all’altra metà della mela mancava un Bikini, vale a dire un tipo di abbigliamento talmente succinto e rivoluzionato, da poter essere paragonato addirittura alle Isole in cui, proprio nei medesimi giorni, gli Stati Uniti testavano le loro innovative armi nucleari.
Effettivamente, non mancò il clamore, né gli scandali. Tanto meno le polemiche, giacché la presentazione al pubblico vide, nel ruolo di protagonista, una spogliarellista: tale Michelle Bernardini, che sfilò a bordo piscina, a Parigi, indossando quattro triangoli di soli 30 pollici di tessuto stampato.
La fantasia richiamava i quotidiani, dal momento che l’idea avrebbe meritato, senza ombra di dubbio, di finire in prima pagina. A seguire, superfluo sottolinearlo, uno stuolo di lettere di congratulazioni – mittenti soprattutto gli uomini — e innumerevoli proposte di matrimonio, per la Soubrette.
Osteggiato, ciò nonostante, dal Vaticano, ancora per un po’. Sua Santità, evidentemente, non lo gradiva, ritenendolo peccaminoso. Tant’è, il vestiario fu ufficialmente bandito da Spagna, Portogallo, Italia, Belgio e Australia e rimase fuori legge – pensate – persino in diversi stati d’America, fino al 1959. Le cose cambiarono, quando attrici del calibro di Rita Hayworth cominciarono a farne mostra.
Brigitte Bardot volle celebrarlo, a sua volta, in una tra le pellicole che la consacrò a Star Internazionale: E Dio creò la donna (1956) e, con lei, numerose altre: Marisa Allasio, ad esempio; Ursula Address, Lucia Bosé.
Intorno ai Sessanta, poi, la svolta. In pieno accordo con la rivoluzione sessuale, il due pezzi seppe ricavarsi spazio e identità personali. Nel 1967, il Time era pronto a testimoniare che il 65% delle ragazze, in spiaggia, oramai adoperava esclusivamente il Bikini. Più in là, nel pieno degli anni ’80, Réard si faceva portavoce di un capo che rappresentava, al tempo, il 20% delle vendite totali di costumi da bagno.
Non c’era termine di paragone, negli Stati Uniti. Non ne esiste – riflettendo – ancor oggi. Il Bikini prosegue la sua corsa. Si impone, capace e forte dei suoi pochissimi cm e detta legge e chissà per quanto ancora lo farà.
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