E poi non sai più cosa fare…
Già. L’omicidio è ‘risolto’, volendo munirci di termini tecnici. Siamo, in ogni caso, venuti a capo – almeno a somma gittata – del colpevole dell’assassinio di Sharon Verzeni, che ci ha tenuti sospesi in questo ultimo mese. The end, certo. Non certo The happy end, anche se il delinquente, al momento, si trova in isolamento, dietro le sbarre.
Quel che maggiormente sconcerta, in questa storia, è -tuttavia – la mancanza di un movente. ‘Sharon potevo essere io‘: chi, stando alla cronaca, non ci ha riflettuto, in queste ultime ore. Come se la casualità giocasse un ruolo ancor più fondamentale, che fino ai giorni scorsi. Fatalità, si diceva un tempo, ma si faceva riferimento, semmai, al salire su un aereo, ad un disastro ecologico (anche se, a ben guardare, lo zampino dell’uomo, anche nelle circostanze, spesso fa il suo). Tant’è, ci siamo; ci eravamo, anzi, abituati, ad un modo di pensare che, sì, può capitare di venire aggrediti ma, magari, si tratta di una rapina, un regolamento di conti, una vendetta… Motivi, insomma. Quelli che del tutto, mancano, invece, in questa vicenda, che non solo di dipinge annichilente di per sé ma apre – ciò che è peggio – un capitolo drammatico di deriva dei nostri tempi.
La cosa più assurda è che, anziché aprire spazio ad interrogativi e domande. Intendiamo quesiti pratici: (es. Dove si è nascosto il colpevole subito dopo aver commesso l’atroce gesto? Dove ha riposto l’arma? Quale è stato il suo percorso di fuga?) Per carità, pensieri legittimi e che, tutti, pretendono risposta… Dicevamo, anziché lasciare spazio a questo genere di interrogativi, che ci viene da classificare nell’ambito dei ‘naturali’ (il come, che riguarda tutte le indagini), quel che più colpisce, lascia basiti; di più, lascia pietrificati è che manca un perché.
Sappiamo chi: un trentunenne italiano di origini straniere, disoccupato,
Sappiamo quando: la notte era quella tra il 29 e il 30 agosto appena passati. Addirittura, conosciamo con precisione l’ora – poco dopo la mezzanotte – dal momento che la vittima ha avuto il tempo – almeno – per fare una chiamata e invocare soccorso. Siamo a Terno D’Isola – in provincia di Bergamo – e il corpo riverso in strada, colpito da una serie di coltellate al dorso, al torace, all’addome, alle spalle sarebbe quello di – anzi, è – quello di Sharon Verzeni, 33enne barista del posto, che in tarda sera era solita correre per le vie del paese, sotto consiglio del suo dietologo. Un modo, per tenersi in forma. Tutto qui.
Sappiamo come si sono svolti gli accadimenti, nel giro di pochissimo e della prontezza di passanti e abitanti di zona nel fornire aiuto alla donna. Inutile, purtroppo.
Sappiamo che un ideale colpevole è lì, pronto per venire servito su un piatto d’argento. Prelibato pasto per gli avvoltoi che non aspettano altro che un racconto ‘storto’ di cui nutrirsi. Morbosamente attratti – loro – da quel che, se non c’è, bisogna crearlo ad arte, a tutti i costi, per fare notizia, per poter continuare a ricamarci su. Per mietere numeri, il più possibile. Così, ci si inizia a riempire la bocca, infarcendola delle congetture più improbabili e facendole passare, se non per vere, per verosimili. Tessendo velatamente ipotesi da insinuare, a mano a mano, nella testa della gente. Spettatori curiosi, a loro volta, in un estate in cui da dirsi e da dire – come sovente capita – c’è davvero poco.
Conosciamo il modo, dunque, in cui si sono svolte le indagini. Gli interrogatori a cui è stato spesso sottoposto il fidanzato della donna, Sergio Ruocco, responsabile unicamente del fatto – quella maledetta sera – di essere stanco e, perciò, di aver deciso di coricarsi. Addirittura, seguendo l’esempio delle ricerche svolte per l’omicidio di Yara Gambirasio, viene messo in ballo il prelievo del DNA, a cui vengono sottoposti circa una quarantina di residenti. Si prende in considerazione l’idea di una ritorsione. Si scandaglia la pista di Scientology, a cui Sharon aveva aderito, una volta assunta al bar.
Niente da fare: nonostante i chi, i cosa, i come, i quando… un buco nell’acqua. Fino al fermo di Moussa Sangare, l’uomo ripreso dalle telecamere in sella alla sua bicicletta. “Ho avuto un raptus improvviso. Non so spiegare perché sia successo. L’ho vista e l’ho uccisa“, si giustifica lui.
Rintracciato dai carabinieri nel Bergamasco, subito confessa, indica il luogo in cui sono nascoste le prove del delitto, collabora… Alcuni minuti prima che toccasse a Sharon, l’uomo aveva puntato il coltello contro due 15enni.
Si viene, così, a conoscenza delle sue origini. Sangare è nato a Milano da genitori del Mali, stato dell’Africa occidentale. Risiede a Suisio, a circa 17 chilometri di distanza da Terno d’Isola. La mamma lavora come cuoca all’asilo. Il padre è morto anni fa, a causa di una malattia. Tutti, o quasi, lo conoscono.
Ancora, a suo tempo ha collaborato con il rapper Izi. Tra i sogni riposti nel cassetto, quello di partecipare ad X Factor… ama la musica, tutto qui. Poi, di ritorno da un viaggio in America, il cambiamento. Si dipinge, addosso, il nostro, un’altra faccia: violenta, perduta, evidentemente problematica. “Non aveva buoni rapporti con la madre. Li sentivo litigare tanto, anche alle tre e alle quattro di notte…“, testimonia un vicino. Fatto sta, a suo carico c’è un procedimento per maltrattamenti, in danno della mamma e della sorella.
Insomma, si sposta l’accento su di Lui e, come succede nella maggior parte dei casi, ci si scosta, nella mente, da chi, invece, non c’è più. Si teme, forse, di guardare in faccia la realtà. Riflettere su Sharon significa fare i conti con la possibilità, cruda, di essere sottoposti ad un fato trasversale e che non perdona.
Non c’è una giustificazione a quanto successo. Solamente, si viene pervasi da un senso di smarrimento totale. Si esce di casa e di colpo, per nessun motivo logico, non si ha più il modo per rientrare. Per riprendere i ritmi di sempre, per svolgere le mansioni del quotidiano… Non ci viene concesso il tempo, neppure per salutare i nostri cari; inserirli e accompagnarli nella convinzione che non ci rivedremo; dargli modo di elaborare un lutto che, dettato dagli eventi, si presenta inspiegabile, inammissibile, inaccettabile.
Verità è che siamo finiti in un tunnel. Un labirinto buio, nel quale ci siamo già in parte persi e continuiamo a perderci, schiacciati dal peso di un vuoto che ci attanaglia e che proseguiamo a rifiutarci di considerare. Ci avvolgiamo, allora, in una coperta di paura allegata di pregiudizio e fingiamo, in tal maniera, di sentirci più forti, più sicuri. Consolati, ma solo per poco. Solo fino a quando non accadrà di nuovo e dovremo nuovamente, per forza, tirar su la testa e guardare, che ci piaccia o meno. E chissà se, almeno allora, cominceremo a chiederci seriamente, esattamente come faceva Sharon negli attimi in cui veniva accoltellata: perché.
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