‘Following a bird’… così vola via Ezio Bosso
“A me, quando mi chiamano Maestro di vita mi fa paura, perché mi fa paura chi vuole insegnare a vivere. A me piace l’idea di aprire una porta in cui passare, di dare accesso…”
Che dire? Il cerchio fa il giro perfetto intorno ad una vita spesa per l’arte, e per la musica. Ezio Bosso si è spento. Un soffio leggero e via… come le note, colme di poesia, che lo hanno accompagnato durante tutta la sua esistenza.
“…quando mi chiamavano maestro mi guardavo dietro le spalle e mi spaventavo”, spiegava, tempo fa, in un’intervista.
“Però adesso l’ho accettato“. Puoi considerarti maestro “Quando hai studiato tanto tanto e continui a studiare. È uno dei vantaggi dei Maestri: migliori, migliori, migliori… poi muori“.
Musicista, pianista, direttore d’orchestra, compositore. Potremmo riempirci la bocca nel raccontare i giorni di chi, con le parole, ha avuto poco a che fare, preferendo piuttosto manifestare il proprio sentire attraverso gli spartiti, soave e profondo, insieme, capace di captare e commuovere, come nessun altro, l’orecchio in ascolto.
Se n’è andato stanotte, nella sua casa di Bologna. 48 anni e accanto la compagna, Annamaria, e i suoi cani, amatissimi. Parlare di cancro, in un periodo in cui la voce grossa la fà il Coronavirus, sembra estraniante. Il gesto ribelle di chi, alle regole imposte ha scelto, per indole, di non sottomettersi. Nulla hanno potuto le soste, continuate, dovute alle terapie. Né la malattia neurodegenerativa che l’aveva costretto in carrozzella. Non erano motivi abbastanza validi per abbassare la testa.
Quando ami profondamente quel che fai. Di più, quando ciò che fai finisce per identificarsi in ciò che sei, allora qualcosa grida più forte e coraggiosa in te, di qualsiasi forma di costrizione o di handicap. Non esistono sconfitte, solo nuove sfide. Come quella di aver dovuto dire addio al pianoforte. Le dita non rispondevano più e i dolori si erano fatti insopportabili.
“Se mi volete bene, smettete di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare. Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso. Ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza“.
Poco male. Il talento non vuole argini. Non li ama. Perciò dirigere l’orchestra, la Europe Philharmonic – per la precisione – non costituiva un ripiego, ma una nuova strada da percorrere.
Lo testimoniano i successi che, lo scorso gennaio, lo hanno portato al trionfo, nelle serate all’insegna di Beethoven e Strauss, presso il Conservatorio di Milano.
Il fisico provato. Eppure bastavano una bacchetta e un predellino perché si compisse il miracolo. Una magia, assistere ad un suo concerto. Un’esecuzione, manifesto dono di se stesso e di amore, immenso, infinito, verso quel che accadeva, esattamente in quel frangente. La capacità di fermare l’attimo e renderlo eterno. Sublimare i sensi e disegnarsi bellissimo. Unico. Immortale.
“I miei orchestrali sono i miei fratelli, i miei figli“, aveva dichiarato nell’ultima intervista al Corriere. “Ci sentiamo moltissimo, ma non è lo stesso“. Aveva aggiunto, parlando dei limiti, imputabili alla quarantena. “Alcuni stanno vivendo un periodo di grande sofferenza. Non possono più suonare, non hanno più un reddito“. Già, perché per Bosso l’altruismo era un’attitudine. Come pure la voglia, inesauribile, di guardare avanti. Di progettare… ha cercato di reagire, si è impegnato in uno studio, matto e disperatissimo, delle partiture, si è appassionato alla lettura di libri di storia. Stava pensando a nuovi modi di fare musica, nel rispetto delle distanze.
E pensare che il desiderio più vero, quello che forse, fra tutti, avrebbe potuto appagarlo, era racchiuso lì, nel calore di un abbraccio. Lo stesso che sentiamo di riservargli noi, oggi. Insieme ad un grazie che non ha prezzo, per averci donato qualcosa di straordinario, e straordinariamente bello.
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