Contraffazione? E’ un lavoro… da creativi

Contraffazione? E’ un lavoro… da creativi

E va bene, ce lo chiediamo: ‘Ma è proprio necessario puntare… all’autenticità?‘ Non che ci sia nulla di male, di per sé, nelle imitazioni, ma dire ‘contraffatto’ significa, pure, pregiudicare l’Economia di un Paese.

Dunque, quando si tratta di salvaguardia del Made in Italy, converrebbe ‘darsi da fare’ nel tutelarlo. D’altronde, le riproduzioni sono, spesso, grossolane e, per di più, arredate da nomi che motteggiano gli originali, in modi, di sovente, buffi e ridicoli. Riconoscibili, certo, ma che vanno, comunque, a discapito di un consumatore distratto o poco informato, magari residente dall’altra parte del mondo e dotato di scarsa dimestichezza con la lingua. L’Italian sounding è, dunque, un fenomeno in espansione, spesso supportato da assonanze che, per mezzo dell’etichetta, richiamano altro.

Non vi viene in mente nulla? State a sentire, allora…

La Zottarella e le altre

Non possiamo non citare – e posizionarla sul podio – la mozzarella – tra i prodotti più rinomati dello Stivale – che, complici metodi di produzione e materia prima – specialmente nel caso della bufala – risulta tra i formaggi italiani, più tragicamente e spudoratamente imitati. Del resto, non è facile da reperire e neppure da riconoscere, per chi non ne abbia consuetudine. Si passa, pertanto, dalla Mozarela alla Zottarella, con buona pace degli sforzi di fantasia. Lo sanno bene Stati Uniti, Brasile, Argentina, Thailandia, ma anche Paesi più vicini al nostro, come Danimarca, Slovenia, Ungheria e Germania. E i pizzaioli napoletani di Berlino impallidiscono d’imbarazzo.

Mortadella, da Bologna al mondo

Dalla mozzarella alla mortadella è un attimo e non escludiamo nemmeno che, da qualche parte, i due nomi vengano confusi e allegramente mischiati tra loro. Per ora, sappiamo di un’improbabile Mortadela Siciliana prodotta in Spagna, da qualcuno digiuno di geografia e, pure, di una presunta Bologna. Quest’ultima, fatta in Germania, a base di pollo, maiale e manzo. Esiste, inoltre, una versione del salume prodotta in Qatar, a base di manzo e pollo, pensata apposta per ottemperare alle esigenze dei consumatori Musulmani. Ottima scelta di inclusività, salvo restando che il messaggio, nella comunicazione, dovrebbe presentarsi chiaro. E tale non è.

Pesto genovese? Quasi

Passiamo, quindi, al pesto. Atro, tra i prodotti altamente suggestivi, complici le immagini dei vasetti di basilico e dei terrazzamenti liguri, nell’atmosfera calda dell’estate peninsulare. Basta guardarlo – lo sappiamo – per evocarne il sapore. E l’immagine, dal timbro esotico, conquista, suo malgrado, anche quando si tratta di Spicy Thai Pesto, in cui il sapore mediterraneo convoglia con quello tailandese, senza sapere dove finisce l’uno e inizi l’altro.

Spagheroni

L’assonanza è inevitabile, ma leggete bene. Non abbiamo a che fare con gli spaghettoni, come – forse, si potrebbe dedurre, bensì, piuttosto, con una salsa di pomodoro, autenticamente made in the Netherlands. Un suggerimento – geniale – di consumo inconscio, per un sugo – parolone – che annovera, tra gli ingredienti, sciroppo di glucosio-fruttosio, amido di mais modificato, olio di colza e succo di limone. Fate voi!

Reggianito

Altro grande classico… il Parmigiano-Reggiano. Ebbene, è talmente fanmoso e nobile, da essersi meritato decine di imitatori ingannevoli. Il cui mercato – riporta Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano, produce “un giro d’affari che, solo nell’area extra UE, vale 2 miliardi di euro, circa 200 mila tonnellate di prodotto, equivalenti, indicativamente, a 15 volte il volume del vero Parmigiano Reggiano DOP esportato”. Accanto all’Australian Parmesan e a quello prodotto in Wisconsin, ci imbattiamo in storie curiose, come quella del Reggianito, prodotto in Argentina, addirittura dalla fine del XIX secolo, dagli immigrati provenienti dal Bel Paese. Le sue caratteristiche, dalla salatura alla stagionatura, per non parlare della provenienza del latte, non sono, ovviamente, paragonabili alla genuinità di un manufatto che va tutelato e protetto, per l’apprezzabilità e i valori nutrizionali.

Prosecco

Ultimo, ma non ultimo… è la volta del brindisi finale. E cosa, meglio delle bollicine? Eppure, si riesce a storpiare persino il nome del celebre Prosecco. Tra Meersecco, Kressecco, Semisecco, Consecco e Perisecco e, ancora, Whitesecco e Crisecco, c’è davvero da sbizzarrirsi. E c’è, tra l’altro, chi non si assume neppure la briga di inventare una nomenclatura inedita. Ecco, allora, il Prosecco made in Russia e quello brasiliano, elaborati di produzioni che rivendicano la denominazione di rito, in virtù dell’accordo tra Unione Europea e Mercosur. A complicare ulteriormente la situazione, di recente, pure la guerra del Prosecco, protagoniste Italia e Croazia, con l’Unione Europea come arbitro. Un ennesimo caso poco corretto, che ipotizza il riconoscimento ufficiale della denominazione del Prosek croato, un passito dolce da dessert, prodotto nella Dalmazia del sud e diametralmente lontano dal preparato nostrano. E dire che le italianissime bollicine sono così apprezzate nel mondo, da valere 1 miliardo di euro l’anno, solo di fatturato all’estero. Equivalente, quest’ultimo, al 16% dell’export nazionale totale.

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