Storia dell’ultimo ‘cappotto’ a Parigi…
Era la primavera del 1972 e, in quel di Parigi, Bernardo Bertolucci si apprestava a girare quello che poi si sarebbe tradotto nel suo capolavoro. Scandaloso, irriverente, chiacchierato. La censura avviò un procedimento penale, allora, contro la pellicola, che sfociò nella condanna al rogo, decretata il 29 gennaio 1976. Dovettero trascorrere 11 anni, prima che venisse riabilitata e figurasse tra i 100 migliori film sentimentali di tutti i tempi, nella classifica redatta dall’American Film Institute.
Fin qui, la storia: l’offerta a Paramaunt, perché si occupasse della produzione; il declino di quest’ultima; l’intervento di Grimaldi, già ‘padre’ della ‘Trilogia’ di Sergio Leone, disponibile alla realizzazione.
Come tutti i racconti – tuttavia – a condire i fatti sono, poi, gli aneddoti: inediti, inaspettati.
Immaginate di trovarvi presso la Salle Wagram, lo storico Auditorium della capitale francese, immersi nelle atmosfere magiche di luogi ispirati ad arte, figli di immaginazione e genio. E’ qui che il Maestro si appresta a dare il là alle riprese del suo “Ultimo tango a Parigi“.
“Non è ancora arrivato… – vi dicono – oggi ha la prova costumi“.
Oh no, non si riferiscono al regista, ma al protagonista. Inizialmente, ad occupare il ruolo, dovevano essere Jean-Louis Trintignant e Dominique Sanda. Un nulla di fatto. il primo, pressoché in lacrimé, rifiutò la parte, incapace di mettersi ‘a nudo’ davanti alle telecamere. L’altra, incinta, dovette declinare, suo malgrado. Si puntò allora lo sguardo su due nomi cult. Si pensò a Belmondo e ad Alain Delon. Anche in questo caso, nulla da fare.
…ma torniamo a noi.
Appare, all’improvviso, nella sala in cui ancora vi gurdate attorno, increduli e, a tratti, smarriti, una piccola sarta, aiuto della bravissima costumista, Gitt Magrini. “Dottor Bernardo… c’è di là uno addormentato in sartoria… che? Forse è la controfigura de Brando? Ie assomiglia davvero, dotto’!“.
D’improvviso, al vostro cospetto, la situazione si anima.
Bertolucci si alza di scatto e corre verso il locale, adibito a sartoria… di lì a breve, l’incontro con una tra le figure più amate, contestate, desiderate… dell’iconografia statunitense.
“What are you doing here! I am so sorry Marlon! Nobody told me that you were waiting! I am terribly sorry!“, prova a giustificarsi il regista. “Don’t be sorry Bernardo! Arrived very early… I found a seat and I fell asleep… I have still the jet lag, I crashed“, gli fa eco l’interlocutore.
Forse non ve ne rendete conto, ma la scena a cui state assistendo è qualcosa di irripetibile.
I due chiacchierano, amenamente. Complici, l’uno sottobraccio all’altro, davanti ai vostri occhi si scambiano il resoconto di un vissuto che, quasi, respira, di quotidianità.
Brando racconta, ridendo, di una giornalista americana che gli ha chiesto come si fa, nella vita a diventare Marlon Brando. E lui ha risposto: “Semplice… basta avere la faccia di Marlon Brando“.
Si procede, dicevamo. Ma fate bene attenzione, perché di fronte ai vostri occhi sta per compiersi un accadimento ‘unico’. In cronaca: si ripresenta la sarta, con in mano un cappotto di cammello.
“Bernardo… c’è un casino di là. Che è questo il paltò del dottor Brando?“, domanda, mentre quasi inciampa nella stoffa, troppo più ingombrante delle sue proporzioni minute. “Ma no! Questo è il mio!, risponde, piccato, il cineasta. Se non che… “Let me try Bernardo! I love it“, interviene Brando. E se lo infila, allacciandosi anche la cintura. “It’s perfect! I will do the movie with this wonderful coat!“.
Bertolucci, attonito, non può far altro che concludere con un mesto: “Ok, I like“.
Ecco, avete appena visto ciò che realmente è stato. Mentre Brando e Bertolucci si contendevano il controverso indumento voi eravate là, presenti, spettatori unici di un episodio he si è tramutato, per forza di cose, in un evento.
Il cappotto non tornerà mai al legittimo proprietario. Poco importa, rimarrà per sempre incastonato tra le pagine più belle e coinvolgenti della storia del cinema.
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