I randagi di Chernobyl oggetto della scienza
I danni provocati dall’esplosione, a dir poco devastante, che in data 26 aprile 1986 ha interessato il reattore nucleare di Chernobyl in quella che, ai tempi, era nota come Unione Sovietica, occupa tuttora la memoria di tutti noi. Ha rilasciato, difatti, l’impatto inaspettato, una nube di radiazioni su una vasta area di territorio, costringendo migliaia di persone ad evacuare.
Talmente gravi le conseguenze, che la zona tutt’attorno – Zona di Esclusione di Chernobyl (CEZ) – è rimasta inaccessibile agli esseri umani, trasformandosi in una sorta di laboratorio naturale e, nonostante provvedimenti e misure, sappiamo bene il fardello di quegli infausti accadimenti, che ancora oggi portiamo sulle spalle.
In quanto all’ambiente, da oltre trent’anni, la fauna locale è oggetto di studi scientifici approfonditi. L’obiettivo è tentare – se non altro – di comprendere come l’esposizione prolungata alle radiazioni abbia influito sulla salute e sull’evoluzione delle diverse specie. Ebbene, sottoposti ad attenti studi sono, al momento, i cani randagi, discendenti degli animali domestici abbandonati durante l’evacuazione immediata, seguita ai turbolenti fatti.
Un recente studio – nel dettaglio – condotto da ricercatori dell’Università della Carolina del Sud e del National Human Genome Research Institute ha esaminato il DNA di 302 esemplari che vivono nelle immediate vicinanze del posto, mettendolo a confronto con quello di altri animali, distanti circa 16 chilometri dal ‘punto di fuoco’.
Fatto sta, i risultati, pubblicati sulla rivista Science Advances, hanno evidenziato differenze genetiche significative tra i due gruppi.
Sebbene la ricerca non sia in grado di confermare la causa diretta delle suddette variazioni, rappresenta – comunque – un importante passo avanti nelle indagini. “È possibile che abbiano sviluppato mutazioni che permettono loro di sopravvivere e riprodursi in condizioni così estreme?“, ci si domanda.
Del resto, nonostante l’inaccessibilità dei luoghi in questione, batteri e grandi mammiferi sembrano aver individuato nuove e inaspettate risorse per prosperare. Le rane arboree orientali (Hyla orientalis), ad esempio, presenti nell’area in esame, si distinguono per la colorazione ambiguamente nera; anziché la loro tipica sfumatura verde. I biologi ipotizzano che la mutazione nella melanina possa aiutare a neutralizzare le radiazioni.
Altrettanto dicasi per i cani selvatici, fonte di ulteriori approfondimenti. Resta – tuttavia – difficile distinguere l’effetto diretto delle radiazioni da altre influenze, come la consanguineità, assai comune in popolazioni isolate.
In fin dei conti, l’idea che le radiazioni possano accelerare l’evoluzione non è nuova. Dagli esperimenti sui semi irradiati nello spazio, fino ai casi documentati di mutazioni vantaggiose, l’esposizione a livelli controllati è stata utilizzata, per indurre cambiamenti adattativi in varie specie. Nel caso in questione, resta però il fattore incognita, enigma affascinante per gli studiosi; porta aperta verso nuove e fruttifere – ci si auspica – scoperte.
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