La pizza? Io la mangio… al tegamino!
Cucinata, al tegamino o, se preferite, in un piccolo padellino, proprio come si fa a Torino, equivalente, per notorietà, alla più classica, cucinata a Napoli.
Formula, questa, che in buona parte rispecchia, d’altronde, l’atteggiamento di understatement, tipico dei cittadini piemontesi, custodi delle personale eccellenze ed atti a preservarle, senza mai alzare i toni. Testa bassa e lavoro duro, loro, privi della necessità di vantarsi e/o farsi belli, agli occhi di chicchessia. Come a dire, volendo adottare un termine di paragone, Macario vs. Totò, contemporanei ed entrambi validi interpreti del periodo storico in cui si trovarono a vivere. Buffa ma eloquente, la presa d’atto che, a Torino, non esiste neppure una via dedicata al primo; Napoli – di contro – non sarebbe tale, senza la benedizione del secondo.

Insomma, all’ombra della Mole si mangia così e non da oggi. A partire dagli anni Cinquanta, la sua storia si intreccia a quella dell’altrettanto famosa farina di ceci, conosciuta fuori dalla regione d’appartenenza, come Cecina (in Toscana), o Fainè (in Liguria) e preparata con acqua e sale, amalgamata in una teglia precedentemente oliata e, poi, inserita nel forno a legna. Una preparazione, il risultato, dorata, sottile e croccante, che si presta per venire consumata anche solo con un pizzico di pepe ma non disdegna le sempre più frequenti e moderne versioni, ricche di farciture.
UN SALTO INDIETRO
Analoga, la tecnica di cottura. Ugualmente agevole, la possibilità di asporto. Per questo, se ne cercano le origini, proprio in concomitanza, l’una dell’altra. Si narra che, terminata la guerra, un pizzaiolo emigrato al Nord abbia ideato un impasto particolarmente idratato e con una lievitazione più lunga rispetto al solito. Depositato, quest’ultimo, in un tegame di alluminio, affinché i tempi di cottura fossero simili a quelli della Farinata ma anche per poter ritagliare, una volta cotta, dosi monoporzione, da metter in vendita.
Storia di una pizza soffice, alta, caratterizzata da una crosta sottile e da un fondo leggermente fritto, dovuto all’olio con cui si ungeva il tegame, prima di infornarla.

Fino agli anni Ottanta – quando in città giunsero i primi pizzaioli napoletani – e come accade ancora oggi nelle insegne storiche, la pizza era così, proposta in pochi gusti. Ce lo ricordano, ad esempio, Cecchi, in via Nicola Fabrizi; Da Gino, in via Monginevro; Da Michi, in via San Donato; da Poldo, in via Dante di Nanni o Da Michele, in piazza Vittorio.
UNA FORMULA RIUSCITA
La ricetta, inoltre, non è variata nel tempo: acqua, farina 00, sale e lievito di birra con, a volte, l’aggiunta di un po’ di olio nell’impasto. Composto, che subisce una doppia lievitazione: la prima, con un riposo fino a 24 ore e la seconda, dopo essere stata stesa dentro al padellino. Di norma, la versione classica è stesa in un contenitore che non supera i 20 cm di diametro, con panetti che si aggirano intorno ai 170 gr (una pizza tonda parte da un panetto di 260-280 gr) e viene cotta tra i 4 e i 6 minuti in un forno, con una temperatura di 330-360°.
Nulla di più semplice, nel pieno rispetto della traduzione.
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