Caso Vannini: le nuove verità in un processo che non accenna a terminare

Caso Vannini: le nuove verità in un processo che non accenna a terminare

Una morte, quella di Marco, ancora giovanissimo, ‘Bello come il Sole‘, come lo ricorda, spesso, sua madre, che ancora, dopo anni e sedute processuali, si accartoccia su se stessa.

Questa è la storia di un bravo ragazzo, di appena vent’anni, che una sera di maggio, in quel di Ladispoli, è rimasto a cena dalla fidanzata, a casa dei suoi. E’ il racconto di una conclusione di giornata come tante, almeno al principio; che poi, però, si è tinta di note stonate. La musica, d’un tratto, s’è fatta frastuono. Poi silenzio, perpetuo. Marco Vannini frequentava Martina da tre anni, ormai, ed era ben accetto dalla realtà che circondava la ragazza. La famiglia Ciontoli: Antonio, sua moglie Maria Pezzillo, il figlio Federico… lo accoglievano, sovente, anche a dormire. Che problema c’era?

La parabola, inesplicabile, del ‘nonsense’

Poi, quella notte. Un’assurda serata in cui tutto risulta inconsistente. Le verità si rincorrono… si accavallano, si ammonticchiano l’una sull’altra, capricciose, indistricabili. Si viene trasportati – senza neppure rendersene conto – in un contesto fatto di vigliaccherie, di ripensamenti, di omessi… E proprio l’interminabile serie di dinieghi, la scarsa chiarezza, quella incomprensibile necessità di insabbiare quanto stava accadendo, ha strappato, al giovane Vannini, il bene più prezioso che possedesse. Marco se n’è andato, con lo stordimento e davanti all’incredulità di tutti coloro, che spettatori o meno, nella strampalata vicenda, si sono trovati protagonisti.

La storia, che ha abitato le pagine delle cronache, fino a saturarle, si riempie, adesso, di un nuovo capitolo. L’audio delle due telefonate al 118, operate dalla famiglia Ciontoli, nel momento del ferimento di Marco, hanno sempre costituito un perno nelle indagini. Diverse le versioni fornite. Troppe ed esageratamente confuse. Ai limiti del paradosso.

E poi – tra gli indizi – numerosi – quell’ulteriore mistero, criptico, almeno fino a questo momento, sulle parole pronunciate dalla vittima, percepite al di là della cornetta da chi, interpellato per porre rimedio, ascoltava, da lontano.

L’audio della telefonata al 118

Un team di esperti ha lavorato alacremente sull’audio, riuscendo finalmente a filtrarne il contenuto. Frasi, quelle di Marco, che smatellano le precedenti ipotesi, dando una rilettura inedita al processo d’appello, iniziato a breve.

Delirava, è stato detto dai diretti testimoni, mentre chiamavano, in cerca di soccorso. E invece quello che emerge ora, grazie al minuzioso operato di Emme Team, gruppo specializzato in fatto di audio, è ben diverso.

Quello che ne viene fuori è raccapricciante: “Ti prego basta, mi fa male, portami il telefono“, gridava Marco, mentre Ciontoli, cornetta alla mano, parlava con l’operatrice. Raccontava di uno spavento l’uomo, di un banale scherzo finito male… e intanto il ragazzo urlava: “Dov’è il telefono, portamelo, portami il telefono, mi fa male, mi fa male il braccio“. Martina tentava, inutilmente, di rassicurarlo: “Basta, basta…“, gli diceva, quasi che il silenzio dovesse chiudere un sipario scomodo, che ammantandolo di mutismo, si potesse nascondere il disastro. Un’inezia, una marachella ‘da non far scoprire ai grandi’. A ben guardare, il quadro che ci si pone di fronte è proprio questo.

Marco cercava aiuto. Inascoltato

E invece Marco pretendeva aiuto e lo desiderava subito. Questo è ciò che racconta la telefonata. Un elemento fondamentale, nel contesto dell’ulteriore processo, che consta di un secondo grado, dopo l’annullamento delle precedenti condanne, da parte della Cassazione.

La ferita al braccio si evidenzia, ora, come un dato di fatto. Ne era cosciente il diretto interessato. Impossibile – dunque – che non lo fossero anche gli altri. Antonio, Maria, Federico, la ragazza di Lui… e Martina. Gente, tutta, che, in linea teorica, avrebbe dovuto amarlo. Proteggerlo. Tutelarlo.

Persone che hanno scelto, deliberatamente, di stare zitte. Di girare gli occhi dall’altra parte e non vedere l’atrocità che si stava compiendo, in quell’insensata primavera, nei pressi di Cerveteri. Non muovere un dito, non sprecare neppure un’energia nella convinzione – quanto meno illogica – che, rimanendo immobili, tutto si sarebbe rimesso a posto, da solo.

Beh, forse il tempo della verità è arrivato. Forse oggi – davvero – i fatti possono essere ricollocati esattamente dove è giusto che stiano e, con essi, le implicazioni, le responsabilità, i torti. Perché morire si può. Vale per tutti. Ma morire in questo modo non ha senso.

Fa male a chi va. A chi resta, ancor di più, perché per questo tipo di dolore – scontato dirlo – non esiste risarcimento.

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