Pompei, la città ‘made in Etruria’
E già, la pensavamo creatura degli Osci, popolazione di ceppo sannitico della Campania preromana. E, invece, Pompei non termina mai di stupirci, financo quando si tratta di stabilirne le origini. Risalenti, queste ultime, almeno 700 anni prima della tragica fine.
Una nebbia, che pare diradarsi solo in seguito agli ultimi scavi e che racchiude in sé una verità inaspettata: per cultura e per lingua, sembra, infatti, che la città in questione, pur edificata secondo uno stile ‘unico’, rechi le tracce di un accento inconfondibile, vale a dire quello di una dominazione Etrusca.
A rivelare la novità, il direttore del parco archeologico, Massimo Osanna – da settembre alla guida anche della direzione generale dei musei del Mibact – che, appena poche settimane or sono, coadiuvato da un team di emeriti colleghi, ha presentato le nuove scoperte all’Accademia dei Lincei, in una tavola rotonda, presenti i nomi più blasonati del settore.
Prima di indossare le vesti di colonia romana, Pompei sarebbe, dunque, stata plasmata dai medesimi capostipiti di Veio, Tarquinia, Cerveteri. Ne hanno strutturato le mura, organizzato le strade; eretto i primi Santuari, a partire da quello, appena fuori dalla città, sulla via che conduceva al porto di Stabiae, snodo dei più fiorenti traffici commerciali.
Ce lo fanno supporre gli oggetti, precisa Osanna. Centinaia di anfore, vasi e ampolle, tra cui oltre 70 coppe con iscrizioni, ritrovate nello scavo del Santuario, costruito lungo la strada che collegava l’abitato al mare. Un edificio, questo, a pianta rettangolare e a cielo aperto, riemerso nello spazio appartenente a quello che viene indicato come Fondo Iozzino, dal nome del suo antico proprietario.
Benché il Tempio sia stato individuato già negli anni ’60 e scavato, ancora, negli anni ’90 – chiarisce l’archeologo – i reperti più interessanti e il loro studio sistematico sono cronaca recente. Un ritrovamento, sottolinea, che fa di Pompei “il luogo che ha restituito il maggior numero di iscrizioni etrusche, fuori dall’Etruria“.
La maggior parte delle coppe, infatti, reca graffiti con frasi rituali, accompagnate dal nome del mandante – se così si può definire – dell’offerta. E, guarda caso, trattasi costantemente di nomi etruschi, alcuni dei quali mai ritrovati prima in territorio campano, ma ben conosciuti nei centri più rinomati della Penisola di allora.
Persino la divinità onorata, indicata sempre con il generico Apa – padre, in etrusco – sembra l’ennesimo richiamo alla cultura di cui sopra. Evidenza, che si ripete “per il Santuario di Apollo, la principale area sacra pompeiana, prossima alla Piazza pubblica“.
L’architettura, anche del centro urbano, rimane, paradossalmente, discostata persino dalla matrice greca. Un unicum: “A ben vedere, si tratta di uno stile, in generale, assente nel pur ricco panorama di centri campani“, fa notare l’archeologo.
Di qui, l’ipotesi di un centro fondato nell’arco di pochi decenni, grazie alla collaborazione con le maestranze locali, ad opera – chissà – forse di schiavi liberati. Una sorta di melting pot che arrecava con sé contaminazioni provenienti dai più svariati indirizzi. Una realtà, allora, ricca e potente, che dominava il territorio, grazie ai numerosi contatti e commerci e, al contempo, non tradiva i valori ereditati dai propri avi.
Un dato di fatto, valevole fino al primo, tragico, stop. Nel 474 a. C., non il Vesuvio, bensì una storica battaglia navale, quella contro Cuma, sconvolse gli equilibri previgenti. Pompei, che nello scacchiere internazionale era schierata dalla parte della madrepatria, sembrò, di colpo, dissolversi nel nulla. Sorta di maledizione, era solo il primo atto di un sortilegio che si sarebbe ripetuto più in là. La città destinata, nei tratti, a brillare, infaustamente immersa nell’oblio. La prima; poi, nuovamente ed irriducibilmente, la seconda volta…
LEGGI ANCHE: Quella caverna che racconta di un tempo che fu…
LEGGI ANCHE: Quei 100 sarcofagi venuti dal passato…
Commento all'articolo