Caro Nino, C’eravamo tanto amati
Uno, nessuno, cento Nino, attribuzione di pirandelliana memoria, per un attore – anzi, un uomo – poliedrico. Un professionista dalla faccia ‘normale’ e perciò, di gomma. Sul suo volto abbiamo assistito ad espressioni smarrite, stupite, bugiarde, impunite… Ci ha commosso e fatto ridere, ci ha destato, attraverso i suoi innumerevoli caratteri, tenerezza,. Mai disprezzo. Ci ha conquistati a suon di ruoli. Sempre giusto, sempre permeato nell’interpretazione. Ci ha convinti, persino, ad acquistare quel certo caffè, che se a consigliartelo è ‘uno di famiglia‘… beh, è un’altra cosa.
Ed oggi, a cento anni dalla nascita, ritorna la voglia di dirgli grazie. Da parte di tutti. A cominciare dai grandi colossi televisivi – vd. Sky – come pure la Tv di Stato. Un viaggio nella memoria, lungo 60 anni, si promette.
E tale si dimostra il docu-film, che vede la regia del figlio Luca: “Finora – racconta – era ad uso didattico, riservato agli studenti di cinema. E’ un viaggio… girato quando Nino compì 80 anni”.
E giacché di anniversario si tratta, il primo ricordo riguarda la torta per il compleanno, su cui campeggiava la scritta: Tanto pe cantà, proprio come il brano che Saturnino volle regalare al Festival della Canzone Italiana. “Ho portato una canzone del Paese nostro. Si può cantare pure senza voce“, esclamò sorridendo. E, in una ridda di applausi, trascinò giù l’Ariston.
A corredo, quasi doveroso, un libro dal titolo emblematico: Un friccico ner core, che fa il verso ad uno tra i tanti episodi – quanto meno stravaganti – che hanno costellato i suoi giorni. La volta – ad esempio – in cui la moglie Erminia, rispondendo al telefono, si sentì dire: “Vorrei dare a Nino una bella notizia“. Era nata Tonina, figlia di una storia occasionale con una traduttrice bulgara, conosciuta a Sofia. “Nino negò. Disse che era uno scherzo, era la corruzione dei tribunali bulgari“, ricorda Luca. Ma poi rievoca il momento in cui quest’ultima “venne al funerale di papà. Alcuni tratti di famiglia li ho riconosciuti. Abbiamo dovuto fare un mutuo per liquidarla dall’asse ereditario“. Ogni volta, portava a casa donne spacciandole come segretarie o insegnanti d’inglese e si rinchiudeva con loro nella mansarda.
L’antica saggezza di una volta ci indurrebbe a commentare, dato il soggetto: ‘Vabbè, finché si raccontano…‘, inducendoci ad una certa indulgenza, riservata – o riservabile – solo a pochi.
E, poi, nella compagine dei ricordi, emerge la volta in cui Luca mise “quasi le mani addosso” a suo padre, che gli fece riscrivere un dialogo, salvo poi giudicarlo “una str…“davanti alla troupe. “Gli misi una lettera sotto la porta, con tutto ciò che pensavo del nostro rapporto superficiale“. Ebbene, colui che era riuscito a ammorbidire l’anima almeno di mezza Italia si dimostrava, in quella circostanza, indifferente, o forse solo un tantinello vigliacco: “Allora Luchino, cosa facciamo oggi?“, gli disse, rincontrandolo il giorno seguente. Esattamente come se nulla fosse successo. Ma che ci vuoi fare? …che per la genitorialità non c’è un copione a cui attingere.
Invece di scritture, quelle vere, ne ha masticate tante. A cominciare dalla famosissima, edita Gigi Magni, che lo portò a vestire niente di meno che i panni della voce de Roma. Era Pasquino, infatti, in Nell’anno del Signore.
“Entrava nel personaggio con tutte le scarpe” e – nel contempo, presi per mano, ci entravamo pure noi. Ci immergevamo in quel suo mondo tutto intriso di sentimenti, di qualsiasi natura fossero. Nino ‘nostro’ è la poesia del cameriere emigrato in Svizzera in Pane e cioccolata, Italiano costretto all’estero, ma dal cuore intramontabilmente patriota: “Il mio maestro è stato mio nonno. Ha vissuto 32 anni in USA. Gli chiedevano cos’è l’America, lui rispondeva: e chi l’ha vista mai, non so manco se c’è il Sole. Faceva il minatore“.
E’ la vivace schiettezza e, in parte, l’ingenua spericolatezza, che ci ritrasporta nella sua Ciociaria in Per grazia ricevuta: “In giardino Nino aveva il pollaio. Il suo piacere era prendersi le uova fresche. Il vino che avanzava a tavola lo metteva in un bottiglione. Lo beveva solo lui. Operazioni di recupero e salvataggio letali. Per lui una miscela irresistibile“.
E’ Giacinto Mazzatella in Brutti, sporchi e cattivi, sudicio e funesto come mai prima e, con la stessa naturalezza, è quel Mastro Geppetto che ci ha consumato di lacrime nel Pinocchio targato Comencini: “Sei l’unico che può parlare con un pezzo di legno“, lo convinse il regista.
Potremmo rammentarcelo in infiniti modi, del resto le pellicole che lo vedono protagonista sono oltre 100. Tutte intensissime. Tutte diverse e speciali.
E fa specie, ma neppure troppo, osservarlo – paradigma della sorte o forse dell’esistenza – tanto ‘perfetto’ nelle sembianze di interprete, quanto sprovvisto di riferimenti nel privato.
Nino era un marito traditore e, forse per questo, ancor più amato. “Era come se volesse consumare e bruciare la vita che non aveva vissuto negli anni giovanili, in sanatorio“.
Era affamato, Nino, e la voracità la traduceva in tutto ciò che toccava. Fin dal debutto, come regista con un film muto: “mi chiedevo cosa avrebbe fatto Chaplin al posto mio“, ironizzava. Il girato, tratto da un successo di Italo Calvino, aveva lasciato scettico lo scrittore: “Gli dissi, se non le piace lo bruciamo. Mi scrisse una lettera bellissima. Mi sono sentito scoperto dentro. Mi sono nascosto nella poltrona“. Sfrontato e timido, eccolo qui.
E, ancora, l’esordio, a teatro, nel 1947, affianco all’istrionico Gassman: “Avevo la febbre alta, ma la sala era esaurita. Non potevo mancare. Io entravo e Vittorio recitava due parti, la sua e la mia“. Era ateo, eppure, rivela Erminia, “il senso del peccato l’ha afflitto tutta la vita“. Una contraddizione in termini, anche qui. Il suo rammarico? Non conoscere l’inglese. La paura? Di essere dimenticato.
Poi, quando la macchina da presa si accendeva “si faceva bambino e tornava a essere un grande“. Perché la sua natura era così, fragile e potente, immenso e piccolissimo e, per questo, immortale.
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