Sindrome dell’impostore: giochiamo a liberarcene!
Il vero e più acerrimo nemico di noi stessi? Siamo proprio noi, c’è poco da fare. Nessuno riuscirebbe, pur con il massimo impegno, a colpirci tanto a fondo, poiché, unici, conosciamo pregi e difetti, intuiamo punti di forza e debolezze. Dunque, cosa c’è di più subdolo di quel male che si insinua tra le righe; che, nell’animo, si manifesta sottile ma persistente, minando come una goccia continua le nostre sicurezze? “La considerazione esagerata in cui viene tenuto tutto il mio lavoro, mi mette a disagio e, talvolta, mi fa sentire un imbroglione, anche se involontario“. Così, niente di meno che Albert Einstein. Persino il papà della Teoria della relatività risentiva di quella che, per i più, prende il nome di Sindrome dell’impostore. La convinzione – vale a significare – di godere di una stima immeritata, sproporzionata rispetto al proprio valore.
I Latini, a tal proposito, usavano la Captatio Benevolentiae, ad indicare chi, secondo i canoni dell’Ars Oratoria, con l’uso delle parole, riusciva ad arrogarsi l’accondiscendenza del proprio pubblico d’ascolto. Un bagno d’umiltà, in quel caso, studiato. Nel nostro, al contrario, l’amara constatazione che non basta dimostrare al Mondo di quanto si è capaci, per riconoscerlo in se stessi.
E non c’è fascia di età o appartenenza economica che ne sia esente.
L’espressione fu coniata, nel 1978, dalle psicologhe Pauline Rose Clance e Suzanne Imes. Nella sua attività di psicoterapeuta, la prima aveva, infatti, notato che una gran quantità di studenti universitari non sentiva di aver meritato il posto, presso i prestigiosi atenei in cui studiava. Percepiva, cioè, la propria presenza, come una sorta di errore.
Il termine descrive – in effetti – un’esperienza interna di frode intellettuale. Chi ne è colpito sente di non meritare lo status o il credito di cui gli altri lo beneficiano e – paradossalmente – vive nella costante sensazione di inadeguatezza.
Stando ai numeri, si stima che 8 persone su 10, prima o poi, ne abbiano fatto esperienza. Secondo quanto riportato sul Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), il fenomeno fa rimando, piuttosto che a stati d’ansia o depressione, all’umana natura. Chi – in pratica – risulta assai preparato ed è stimato nel proprio ambito lavorativo, tende a credere che i rispettivi interlocutori siano altrettanto in gamba. Di conseguenza, la propensione a sentirsi in difetto. Una sorta di dismorfia cognitiva, che conduce alla sottovalutazione.
All’origine della manifestazione potrebbe risiedere, inoltre, un pregiudizio sul gruppo sociale, noto come ignoranza pluralistica. Nella fattispecie, ciascuno dubita di sé privatamente, ma pensa di essere l’unico a pensarla così, giacché nessun altro dà voce ai propri dubbi. Avete presente il cane che si morde la coda?
D’altronde, è difficile capire quanto gli altri fatichino per raggiungere i loro obiettivi o quanto trovino complicato superare determinati ostacoli. Gli esperti sono concordi nell’asserire che il modo migliore per superare l’insicurezza è esprimerla a parole. Se ciascuno si facesse portavoce delle personali titubanze, ci si accorgerebbe di come il Mondo sia piccolino e di quanto anche le figure prese a modello possano soffrire – loro malgrado – dei nostri identici problemi. Motivo in più per superarli.
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