La donna di Slim: mito della Hollywood degli anni fulgidi
C’era una volta… vi va se, in questa occasione, iniziamo così?
Dunque, c’era una volta… Lorita Dewart. O, forse, converrebbe chiamarla Rita Aarons. O, meglio, signora Aarons, coniuge del celebre reporter Slim Aarons, che un tempo era conosciuto, semplicemente, come George Allen Aarons. Insomma, Lui aveva ripreso gli sbarchi, in Europa e in Africa. Aveva fermato, attraverso la sua ‘camera‘, le immagini più raccapriccianti del Secondo Conflitto Mondiale. Momenti bui, fin troppo realistici, anche attraverso il filtro fotografico.
Così, ad un certo punto della sua carriera, si era… come potremmo spiegarvelo… scisso. Vale a dire che, il talento, messo a disposizione, fino ad allora, per immortalare la realtà, si rivolgeva, d’un tratto, altrove. Ad un mondo esattamente speculare al precedente, fatto di gente ‘bene‘, di spiagge assolate – quelle della California, per intenderci – di riviste patinate: Vougue, Town and Country, Life e tante altre.
Improvvisamente, il perno della sua esistenza era rappresentato dall’high society, che ne governava, in qualche modo, le scelte, le valutazioni… e gli scatti.
Dovendo parlare di sé: “sono solo un cronista con la macchina fotografica“, commentava. Ma, al di là del suo strumento di lavoro posavano, ritratti più o meno casualmente, Marilyn Monroe, Jackie Kennedy, Guy Vidal… un mondo di gente benestante, attori, scrittori, politici e relative consorti, parallelamente contrari ai soggetti del passato.
“lo stile di vita non era essenzialmente migliore, era diverso. Le persone ricche vivevano serenamente, perché non erano influenzate da cose negative“, ribadiva, raccontando la propria esperienza di lavoro. E, Lui, quell’universo serafico lo fermava con l’uso delle immagini. Ritraeva momenti privati, frugava nel cassetto di chi avrebbe potuto permettersi il mondo, e lo faceva – evidentemente – in maniera talmente garbata, da riuscire egli stesso ad entrare a far parte di quella fetta di umanità.
I colori dei ritratti erano vividi, così come lo erano, dentro la sua testa, gli obiettivi: “Fotografare persone attraenti, facendo cose interessanti in luoghi affascinanti”.
E, tra i numerosi soggetti a cui rubare, anche solo per qualche istante, le emozioni, c’era anche Lei, la sua Rita. Sguardo malizioso, quello tipico di qualcuno che ha confidenza con chi la sta osservando. Occhiali da sole, a trattenere i ricci dispettosi schiariti dal sole. Un drink in mano, consumato e, a tratti, ripreso e quel costume rosso, infuocato. Castigato, secondo i dettami dell’epoca, eppure – forse proprio per questo o merito di chi lo indossava – sexy. Lui la guardava per mezzo di un obiettivo, capace di amplificare il sentire di entrambi. E, probabilmente – viene da pensare – lo faceva con tutti, giacché, in quel di Hollywood, lo consideravano “Uno di noi“.
In fondo, era solo un orfano. Uno di quei ragazzi di buona – anzi, ottima – famiglia dell’New Hampshire, dotato di uno spiccato talento. Per i suoi lavori, del resto non servivano stylist, né truccatori. La vita la rapiva così, ex novo, già talmente edonistica di per sé, da non richiedere di essere edulcorata altrimenti.
Slim e Rita si erano sposati nel 1951. Lei gli faceva da assistente e lo fece in America come in Italia. A Roma, nella sede di Via Veneto, passarono Fellini, Antonioni, Mastroianni, Sophia Loren, Claudia Cardinale. Ma se principesse e dive erano all’ordine del giorno, Rita rimaneva il fulcro del suo osservare.
La ritraeva, con la sua Leika, poi con la Nikon, come se non esistesse null’altro di più interessante e prezioso. Rimase celebre l’istantanea, del 1954, nota come Christmas Swim, in cui la moglie, sdraiata su un materassino in una piscina dalle cui acque spunta un abete addobbato, galleggia fra palline di Natale luccicanti, che tre bambini cercano di afferrare, sporgendosi dal bordo. “Faceva freddo e lei era arrabbiatissima“, racconterà, in seguito, George. Poi ci fu quel giorno, nel 1955, in cui la coppia si trovava alle Hawaii. Erano al seguito del set del film La nave matta di Mister Roberts, diretto da John Ford. Il cast era tutto al maschile, perché il film si svolgeva su una nave da guerra e ne facevano parte Henry Fonda, Jack Lemmon, James Cagney e William Powell. Così, durante una pausa dalle riprese, l’occhio esperto dell’uomo cadde sull’immagine della compagna, distrattamente intenta al relax.
“Fotografo le persone che indossano vestiti e poi quei vestiti diventano di moda”, soleva dire. Ed era vero. Creava, forse, una realtà parallela, sorta di risarcimento della vita, proprio come era accaduto nel suo personale. Si scoprirà, più avanti, che non era né orfano, né del New Hampshire. Figlio, piuttosto, di immigrati yiddish poverissimi, che vivevano nel Lower East Side di Manhattan. Ed era cresciuto, il ragazzo, sballottato da parente a parente, nel momento in cui la madre era finita in un ospedale psichiatrico.
Per tutta la vita aveva ottenebrato le sue umili origini, per regalarsi giorni nuovi, diversi, eccentrici, dorati. Ha incorporato, scatto dopo scatto, l’imprinting di un’epoca e l’ha immagazzinata a mo’ di macchina del tempo, per poterla, noi, rivivere ora.
E, quando, passeggiando sul bagnasciuga, ci domandiamo perché mai il costume intero eserciti sul nostro immaginario, tutt’oggi, un così grande fascino, mettiamoci in mente che una risposta c’è ed ha un nome ed un cognome.
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