Arancia Meccanica come Salomè, spogliata dei suoi veli
“E d’un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione”. Malcolm McDowell – alias Alex DeLarge – deve aver pronunciato queste parole decisamente convinto, a suo tempo. Talmente tanto, da rendere l’intera opera un capolavoro.
Protagonista, lui, vero, insieme ad altri ma tant’è, quando l’alchimia si crea, poi, tutto è i discesa… Tale è stato per Arancia Meccanica (1971), pellicola che porta la firma di un semi-onnipotente Stanley Kubrick, tratta dal romanzo distopico scritto da Anthony Burgess, ancor prima, nel 1962. A Clockwork Orange, il titolo originale che, derivato dallo slang cockney, significa ‘sballato come un’arancia ad orologeria’).
Ed è dal regista che partiamo, in questa disamina, considerando innanzi tutto che, se si fa eccezione dei suoi primi due film – Paura e desiderio (1953) e Il bacio dell’assassino (1955) – tutti gli altri sono tratti da opere letterarie e hanno attraversato i generi cinematografici più disparati. Nel carnet del cineasta c’è di tutto, dal fantascientifico all’horror, allo storico.
Tornando a noi, Arancia Meccanica gode, per i suoi spettatori, di tre diversi canali di entrata: drughi, latte e Beethoven.
Una storia di violenza, punto. Eppure, si tratta ugualmente di un fenomeno di seduzione raffinata. Sarà forse – anche – per via dei costumi avanguardistici, ideati appositamente dalla costumista premio Oscar Milena Canonero. Fatto sta, già alla prima, in quel lontano 19 dicembre 1971, il pubblico della Grande Mela era rimasto diviso; disturbato, per buona parte. E come avrebbe potuto essere altrimenti, d’altronde, dopo aver ricevuto un tale calcio nello stomaco?
Un K.O., tuttavia, con allegato tanto di scandalo – ovvio – che l’anno successivo si sarebbe tradotto, presso la Mostra del Cinema di Venezia, in una sequela di nomination ai Premi Oscar.
Dunque, gli occhi si erano oramai abituati – si fa per dire – all’immersione in una Londra futuristica, dagli echi pop e postmoderni; ai richiami ossessivi all’arte degli Anni ’60 e ’70; ai ricorrenti rimandi alle lotte – in auge all’epoca – per la liberazione sessuale. Un condensato di rabbia giovanile e rivendicazioni, in cui facevano bella mostra di sé le prime droghe sintetiche, le guerre tra bande e tanto, tanto altro.
C’è da sottolineare, tra le numerose curiosità, che Kubrick non apprezzava la storia e che, inizialmente, non era affatto nell’intenzione di assumerne la regia. Non solo. Per la colonna sonora si era rivolto a Morricone, ma intervenne, ad ostacolarlo, direttamente Sergio Leone. La collaborazione, alfine, non ebbe mai luogo.
In origine, la risultante fu di un montato di 4 ore, tradotte in seguito in 2 ore e quindici minuti. Il resto venne bruciato. Ancora, magari è difficile da immaginare, ma la scena cult in cui, sulle note di Singin’ in the Rain, Alex e i suoi compagni compiono violenze nella casa di uno scrittore e di sua moglie è stata… frutto di improvvisazione.
L’incasso totale del film fu di 114 milioni di dollari. Un record, per un lavoro, per cui si erano spesi poco più di 2 milioni.
In ultimo, se volessimo sintetizzarne la trama, scarnendola al massimo, potremmo limitarci nel descriverla nel seguente modo: prendere a calci, bastonare, rubare, cantare, ballare il tip tap, stuprare.
Eccola, la placenta in cui si crogiola e da cui trae nutrimento il nostro Alex, teppista con la bombetta. Si diverte a modo suo, tragicamente a spese degli altri.
Un percorso – di redenzione? – da punk amorale a onorato cittadino, previo lavaggio del cervello, ambientato in un futuro scioccante.
Se non fosse già per tutto il resto, potremmo avventurarci nel citare le immagini indimenticabili, i contrappunti musicali da brivido, il linguaggio elitario adoperato da Alex seduttore e privo di scrupoli.
Un gioco di specchi rotti, che valse, tuttavia, i premi della Critica Cinematografica di New York per il Miglior Film e il Miglior Regista e si aggiudicò quattro nomination all’Oscar, compresa quella per Miglior Film.
Un passaggio, che ha superato il mezzo secolo ma che, ancora adesso, ‘nel mezzo del cammin della sua vita‘ – per citare un altro Sommo – rimane intatto. Non perde nulla della sua potenza artistica, né della sua intensità e, per certi versi, addirittura, ritorna ferocemente attuale. Ci tiene incollati allo schermo, ora come allora e, soprattutto per questo, si inserisce a pieno diritto nella lista degli eccellenti, ‘da rivedere’.
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