Ma guarda tu quell’antipatico di Leopardi!
Di cose, al suo riguardo, se ne sono dette e, tuttora, se ne dicono. L’immagine che, più di ogni altra, il tempo ci ha regalato – o ci ha voluto convincere che fosse – è quella di un individuo serioso, cupo. Di più – a titolo comune – lungamente ci ha accompagnati l’idea del ‘poeta pessimista’. Un animo incline all’arte; sfortunato, per via della sua condizione fisica. Un progressista, secondo le più recenti interpretazioni, fino ad arrivare a leggerlo – complice la scrittura di Alessandro D’Avenia o il talento interpretativo di Elio Germano – alla stregua di un’icona pop.
E, magari, tutto questo lo era, Giacomo Leopardi. Questo e tante altre cose ancora. Tuttavia, fatto di carne e sangue, veniamo, ora, a conoscenza – grazie ad una nuova autobiografia ‘non autorizzata’ – anche di alcuni suoi lati ‘oscuri’. Sfaccettature di un carattere complesso, intriso di contraddizioni e lontano – questo sì – dall’immaginario collettivo.
Così, Raffaele Ascheri, l’autore, ci prende per mano e ci accompagna in una rilettura inedita dell’artista. Ce lo racconta, tanto per cominciare, come un intellettuale assai “livido e livoroso“. Lo “zoppo fottuto“, che si portava sul groppone pure il soprannome di “saccentuzzo“. Attentissimo nel giudicare gli altri, ma altrettanto privo della capacità di autocritica.
Ancora, si viene a sapere che l’igiene non occupasse un posto d’eccellenza, nell’ambito delle sue priorità e che fosse smodato e disordinato, anche per quel che riguarda l’alimentazione. Affatto parco, quando si trattava di zuccheri: “Poche ore prima di morire – per dire – assunse un brodo di pollo, seguito da una limonata fredda e da “due cartocci” di confetti cannellini di Sulmona… riluttante a seguire le prescrizioni dei medici, che gli consigliavano l’aria più salubre di Torre del Greco“.
Certo, non un adone. Eppure, quel che più colpisce è l’accettazione passiva di una condizione, non solo fisica. Poiché l’attività di scrittore si mostrava infruttuosa, il nostro, scevro dalla volontà di industriarsi e, tutto sommato, poco dedito al pragmatismo, preferì ridursi ad elemosinare, presso amici e conoscenti. Pur in grado, rifiutò la cattedra da insegnante. Meglio chiedere denaro, che doverselo procurare lavorando.
Un materialista e un ateo, sì, ma pronto ad abdicare alla coerenza dei suoi “principi“, qualora avesse trovato riparo, ricovero e protezione sotto l’ala di Madre Chiesa. Certo, la riguardevole attenzione la pretendeva a Bologna. Quando si presentò l’occasione di un’occupazione presso la Città Eterna, non perse tempo nel declinare l’offerta. Il costo della vita, del resto, a Roma era esageratamente alto, il caldo eccessivo… vuoi mettere?
Non solo. Se già così, da lettori, rimaniamo perplessi, la sfacciataggine ce la dà il suo livello di ingratitudine. Nei confronti di Paolina Ranieri – per dirne una – che gli si dedicò negli ultimi anni, assistendolo quotidianamente; o verso il suo mentore, Pietro Giordani che, arrestato e in seguito liberato, scriverà di suo stesso pugno, al riguardo dell’amico: “Pare che il cuore non corrispondesse all’ingegno“.
Omofobo. L’omosessualità era, a suo avviso, un “vizio antinaturale“, una “snaturatezza infame“. Misogino, laddove la femmina altri non era, se non “animale senza cuore“, “una bestia“. Razzista e razionalista: “Senza amor nazionale, non si dà virtù grande“, si darà a constatare nello Zibaldone.
Pure, stando sempre ad Ascheri, antisemita e, a dispetto delle ipotesi, poco credibile nei panni di patriota risorgimentale, giacché mai si schierò contro il nemico austriaco.
Un ritratto impietoso?
La constatazione, forse, di quel che c’era al di là di uno tra gli esponenti più in vista del romanticismo letterario. La raffigurazione di un bagaglio – tra l’altro – di fragilità, incoerenze, illiceità, che come quelle che – a ben guardare – sono solite appartenere all’umana sfera.
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