Lettera anonima ad Arianna David
“Peso 46 chili e ho la taglia 34, da bambina“. Ti vesti dove mi vesto, io, penso subito e non so se è ironia o sarcasmo quanto accompagna i miei ragionamenti. Cinque minuti – il 25 marzo scorso – ospite da Bruno Vespa e si parla, di nuovo, di te o meglio, di ciò che, agli occhi del mondo, puoi o vuoi significare. Una ex ragazza – ormai gli anta sono suonati ma non è un problema, a mio avviso resti bellissima – con un demone che la abita. La vogliamo chiamare patologia? Mette meno paura etichettandola in questo modo, vero? E sia. Fatto sta, della Reginetta di bellezza di trentuno anni fa resta poco.
Non confondere, non parlo – lo ribadisco – del tuo aspetto fisico. Mi riferisco al martoriante lavoro che, in tutto questo tempo, la convivenza con quello che io definisco l’Inferno possa aver operato su di te. Sul tuo carattere, sulla tua indole… Quanto possa averti minata. : “Purtroppo, quando ti ammali di questo tipo di malattia non se ne esce mai fuori. Si va incontro a continue ricadute. Qualsiasi cosa avvenga nella tua vita, purtroppo, tu te la prendi sempre con il cibo“.
Io direi, piuttosto, che finisci per prendertela con te stessa e che, tuo malgrado, il bagno finisce per assurgere al ruolo di luogo sacro. Il posto in cui i mali trovano sfogo; in cui tutto ciò che non piace, che fa orrore, che tradisce o è ritenuto velenoso viene, istantaneamente, rigettato. La soluzione e sarebbe bello se, davvero, fosse così… ma, nella vita, attraverso l’esperienza ho dovuto fare i conti con il fatto che tutto, proprio tutto, ha un prezzo. Mentre ci si illude di aver trovato la chiave, ci si avventura in un circuito, che assomiglia assai più ad un labirinto e dal quale, poi, uscire ha il sapore di una chimera.
Te lo dico perché, alla soglia dei… anni (che importa, infondo, quanti sono. Pesano comunque…) il mio calvario è, in qualche modo, simile al tuo. Mi permetto… da sorella. Scevra da giudizi, ma rimanendo anonima. C’è chi scrive e può parlare per me ma io no, non ce la faccio. “Non avevo paura di ingrassare, Purtroppo c’erano prototipi di modelle talmente magri, che bisognava essere come loro, per svolgere determinati lavori. E quando questo incontra persone fragili come me, o altre, questa malattia arriva“. Ti ascolto e sotto sotto – neanche troppo velatamente, a dire il vero – ho l’impressione che ti stia giustificando. Mi viene da ridere… come faccio a non comprendere. Non esiste onta più grande, per la gente. Si perdona tutto. Si dimentica, si supera tutto… ma questo no.
Allora, bisogna inventare, escogitare motivi che, alle orecchie di chi ascolta, di chi non conosce ma è pronto ad aprir bocca, risultino validi, plausibili, inconfutabili. A ‘soli’ 20 anni, racconti, ti sei dovuta confrontare con il mondo della moda, che ti pretendeva cesellata in una certa maniera. E sia anche questo, ti credo, ma non venirmi a raccontare che ‘quella roba’ non ti abitava già. Non era, sia pur in forma di seme, insita nel tuo modo di essere e di guardare le cose. Anzi, di guardare proprio te, davanti allo specchio: troppo… troppo o troppo poco (questo è il vero danno, che se non è più che perfetto è ‘speditamente’ sbagliato, senza appello).
Tu… come me, ti dicevo: fragile. Sia chiaro – lo specifico per chi, di queste cose, non ne conosce le insidie – non significa debole, ma esattamente il contrario. Non ho mai incontrato persone come me, come te, talmente determinate nell’annientarsi in nome – e qui è il punto, quello che più ferisce – in nome di una causa che, in verità, non esiste.
Quando ti ho vista, la prima volta, era proprio il 1993, in occasione del Concorso che, con il respiro di qualche serata, ti avrebbe proclamata Miss. Eternamente Miss: questo lo sai, no? Ebbene, non lo dico per piaggeria, io ho sempre fatto il tifo per te, dal primo istante. Ti avevo eletta, nel mio cuore, prima ancora che lo facesse il resto d’Italia… o la giuria. E, guarda, sono di gusti difficili, raffinati… ma quella tua luce negli occhi, l’armonia…
Mi corrispondevi. Chissà, forse tra pari ci si riconosce, rifletto oggi. Denunci il fatto che, benché nel nostro Paese esistano oltre un centinaio di Istituti a disposizione di chi soffre di disturbi alimentari, tu non sia mai riuscita a farti aiutare concretamente. Beh, non sentirti sola. Terapia singola, familiare, Centri specializzati – appunto – ricoveri… mi hanno sondata, psicanalizzata, studiata, addirittura, in certi casi. Come una scimmietta, come una cavia. Mi hanno incentivata a ‘buttar fuori la rabbia’. Mi hanno chiesto: “Su, fammi vedere come mangi?” E poi i soliti: disegna tuo padre, tua madre, il tuo stomaco… e bla bla bla… Mi hanno scardinata e ricomposta, secondo l’inclinazione o il gusto personale.
Cara Arianna, tutto quel che ho risolto, in merito a questa mia situazione, o chiamiamolo disagio… no, chiamiamolo come si chiama, incubo. Dicevo, tutto quel che, di positivo, ho raggiunto, l’ho conseguito per mani e volontà mie. Esclusivamente mie, dopo essermi stancata di un vivere che mi assorbiva, alla stregua di una sanguisuga, energia; che mi sottraeva alla vita, alle amicizie; soprattutto, a me stessa.
Se mi sono ‘riconquistata’? Ripeto, ho ‘quasi’… Tot anni, non sono una bambina. Non un’adolescente, anche se, salda, risiede in me. Questa è l’esistenza, Arianna, non è un bel film, con tanto di lieto fine. In parte, ti rispondo, dunque. In parte sì. Ho potuto costruirmi una famiglia, avere accanto un ‘uomo’ – e sottolineo uomo. Rari, al giorno d’oggi – che mi ha amata e che, tuttora, mi ama – che mi ha protetta da chi non poteva comprendere, non mi ha giudicata e mi ha tenuta per mano. Figli? Nemmeno a parlarne. Tu vorresti un figlio generato da un mostro? Un bambino o bambina a cui insegnare come crescere, quando la stessa strada non hai avuto il coraggio di percorrerla tu? Quando sei rimasta, per tuo stesso desiderio, prigioniera in quella Torre che ti fa sentire protetta dal mondo e, invece, sei irrimediabilmente isolata. I rumori li senti, sì, li percepisci, quel tanto che basta per intuire che qualcun altro c’è ma non si trova abbastanza vicino, per esser captato come un pericolo.
Tu sei un animale in gabbia. Lo siamo tutte noi e scusami se parlo senza riserve, ma so con chi parlo e so che puoi capire quanto dico, come lo dico e perché. Tu mi conosci, senza avermi mai incontrata. Io conosco te.
La bilancia l’ho abbandonata, che avevo 11 anni. Non ci sono mai più salita: per non giudicarmi, per non salirci ancora e ancora e ancora… un etto in più, un etto in meno, ancor più pericoloso perché, allora, significa che si può, che si può scendere ulteriormente e mettersi in salvo, al riparo da quei kg così disturbanti, se letti su un display. Non ci si rende conto, nel frattempo, che quello stesso ago sta regolando le ore, i giorni, i mesi… i minuti attuali e quelli a venire.
Mestruazioni? Ahahahahah… sai quante volte mi è stato diagnosticato lo stato di menopausa? Sono rimasta incinta e incinta e incinta… ho perso tutto. L’embrione – come te lo spiego – non era pronto.
“In questo particolare momento della mia vita sto combattendo contro l’anoressia nervosa. Sono talmente nervosa, che non ho mai appetito e questo mi porta a non mangiare“. Non so se crederti, perdonami. Nel senso che chi, come noi, veleggia in questo universo parallelo sa bene le dinamiche. Sa – senza ombra di dubbio – che non esiste un’anoressica pura. Va bene per un po’ ma, poi, l’organismo ha fame. Ti chiede. Di più, esige che Tu faccia qualcosa, che Tu mangi. Allora mangi e mangi e mangi… rimpinzandoti fino a non poterne più, per poi riprendere, appena possibile e, intanto, non pensi ad altro… Svuoti mensole e frigo, finché non svuoti anche te. Bastano due dita in gola o, come è successo a me, basta la mente. Un esercizio di concentrazione infallibile, che ti consente di dominare il tuo stomaco. E no che non entra nulla. Certo che no!
Ti sfami con un piatto di fagiolini al giorno, dichiari. Buon per te, si vede che li ritieni ‘neutri’; cibo innocuo, che non può colpirti. “Non guardo le calorie o cosa c’è nel piatto. Mi alleno anche, il problema è che io non ho fame“, prosegui ed io proseguo a non crederti. Io non mangio, da quando avevo 19 anni. Sì’ sì, ha capito bene. Io non tocco alimenti solidi, da allora. Il mio corpo non ce la fa a sintetizzarli. Del resto, ad un neonato daresti mai una fettina di carne?
Ma non chiedi aiuto? Mi potresti domandare. No. Ho smesso, da lungo tempo. E perché mai chiedere aiuto a chi ti guarda e non sa da dove cominciare… Luminari, non mi riferisco a persone inesperte. A chi, non sapendo gestire la questione, ti fa sentire ulteriormente in colpa o sbagliata, inadatta, interrotta. L’uomo elefante. Un ‘fenomeno da baraccone’, riassunto. No, Arianna. No, grazie! Ho trovato un mio schema. Ho acquisito, nel mentre, le mie armi di sopravvivenza.
Un protocollo – definiamolo così – per non perdermi il buono del tempo che passa e non venire completamente aggredita… da me. Ho imparato a studiare chi sono. E’ accaduto… mi sono detta brava, mi sono – in parte – perdonata. Soluzionata, per certi versi ed ho lasciato che emergesse, al di là delle ossa, la potenza, innocua e gentile, che mi caratterizza.
“Il consiglio che mi sento di dare a chi, come me, soffre di questo tipo di disturbi è di recarsi in un centro specializzato e chiedere aiuto. E’ difficile uscirne da soli“, suggerisci. Hai ragione, ma la verità raccontiamola per intero. C’è una soglia, oltrepassata la quale uscirne non è più possibile. “Io faccio la fame e ho molti disturbi correlati“. Sei onesta, Arianna. Aggiungi, ti prego, nel comunicare al mondo che, di questa roba, si muore.
Si muore ogni istante che passa, nell’incomunicabilità con chi si infarcisce la bocca di belle parole: inclusività, accettazione e via dicendo. W le donne formose, burrose, vero? Ma quanto fanno paura, al contrario, quelle veramente magre! Quelle, dove le costole appaiono evidenti e, insieme, pure il cuore che batte. Risulta ‘disturbante’ questo spettacolo, perché è imperdonabile pensare che, in una Società dove non manca nulla o quasi, non si riesca a salvare creature che, semplicemente, chiedono di ricevere Amore. Ma già, non c’è tempo. Meglio sperticarsi a promuovere linee fat.
Non sai quante volte ho visto donne sgomitare, per indicarmi. Gli uomini, no. Loro, se non sei ‘bona’, manco ti considerano. Non ci fanno caso. Ma noi siamo quanto di peggio… Giudichiamo, per sentirci migliori; per ripeterci, l’attimo successivo, di esserci salvate dallo scempio, di essere più forti; più belle… magari, poi, siamo lì, pronte alle più autentiche nefandezze, ma questo non conta. Noi, siamo come Dorian Gray.
Mi sono scansata, alle volte. Sovente, ho limitato le uscite, per non dare mostra di me. Mi sono auto-censurata, per il timore che la mia ora d’aria sfociasse in qualcosa di drammatico e fortemente doloroso.
Ho pesato 26 kg, Arianna. 26, come un mucchietto d’ossa, alla stregua di una deportata in un campo di concentramento e ancora mi domando quale sia, in effetti, la differenza tra me e loro, tutti coloro che hanno conosciuto le infamie della guerra. Perché questa che cos’ è, se non – appunto – una guerra?
Un auto-sabotaggio, scansionato in innumerevoli battaglie. Vinte, perse… La gente si stupisce nell’incontrami sorridente, arguta, acuta, sensibile, lungimirante, saggia, amorevole, talentuosa… Già, io sono proprio come loro, ma non sono una di loro. La differenza e il sunto di questa mia missiva è tutta qui.
La nostra, cara amica e scusa se mi prendo la briga di appellarti in questo modo, ma ti significo come una sorella di avventure – o di disgrazie – è una composizione distorta. Un quadro appeso, che non riesce a stare dritto. La cornice è bellissima e, a guardarlo bene, si tratta di un’opera ricca, colma di accenti ed ispirata, eppure…
Siamo un punto sospeso, una domanda che non trova risposta. Siamo, nelle carni, quello che gli altri rifuggono. Ciò che fa fare loro riferimento alla propria coscienza e che mai e poi mai vorrebbero trovarsi di fronte. Siamo uno specchio e per di più frammentato.
Arianna, io ti capisco e ti abbraccio. Mi piaci ancora, sappilo, mi piaci come il primo giorno, quando le ombre erano ancora lontane o quando, nelle diverse circostanze, tv ho nuovamente incontrata, sullo schermo, in evidente lotta – almeno dal mio punto di vista – con i tuoi mille fantasmi. Si può vivere? Si può vivere, così? Io non lo so. So che non mi adatterò mai e, spesso, mi chiedo come sia riuscita a spingermi fin qui.
Questo mio navigare mi ha portata, però, a sapere cose, a vedere cose, a superare limiti… che altri non potranno mai toccare perché, come è giusto che sia, mai avranno modo di mettersi alla prova, almeno in questo senso. E’ un marchio, che mi serve a ricordare. Ti auguro di trovare pace, non un giorno ma presto. Presto!
A me, di continuare ad imparare; che questa continua ed instancabile espiazione possa, se non altro, servire a qualcosa…
Da fonte anonima
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