Virginia: parabola di una Stella ‘cadente’

Virginia: parabola di una Stella ‘cadente’

Il sipario si apre. Si spalanca su di me, che mi ritrovo immersa tra le grazie di Hollywood. Le sue promesse, le sue insidie… Già, qualche sfilata, qualche fotografia… Niente di più, per ora, ma arriverà. Ne sono convinta, non dovrò attendere troppo il giorno in cui anche io brillerò, come una Stella. Devo solo aspettare. Tempo al tempo, mi ripeto e rimango tenacemente avvinghiata ai miei sogni. Abbarbicata all’idea che le cose, per me, stiano per cambiare.

Mi chiamo Virginia Rappe. Li vedete i miei occhi che ridono? La riuscite a distinguere la fame, che tutta mi invade, di un successo che sembra aspettare solo me? Che desidera ammantarsi del mio nome? In Italia, tempo a venire (siamo già nel 1953), la vicenda Montesi invaderà le cronache. Darà scandalo. Beh, a dirvi il vero questo mio racconto non è poi così distante dal suo. Io, come Wilma.

Primi di settembre, 1921. I fatti si consumano in una suite dell’Hotel S. Francis di San Francisco. Tanti ospiti facoltosi, alcool a fiumi e ragazze a non finire… Tra queste, io.

Di questa mia storia restano poche certezze che – peraltro – si confonderanno con il trascorrere dei giorni. L’alternarsi delle testimonianze, nelle fasi più salienti del processo, non ha di certo aiutato. La cronaca riporterà lo stato in cui mi hanno trovata: mi contorcevo sul letto con i vestiti a brandelli; mormoravo – raccontano – frasi sconnesse. Lamentavo dolori lancinanti, all’inguine. Il medico di guardia, in quel frangente, dichiarò che si trattava ‘solo’ di una brutta sbornia. Non diede peso, per cui gli ospiti, tutti, tornarono a ballare.

Fatty – pure – tornò a Los Angeles. Fatty – forse è Lui, in effetti, il vero protagonista di questo increscioso episodio. A guardar bene, Io non rappresento altro che una figura di secondo piano. Una comparsa, anche in questo caso… Roscoe ‘Fatty’ Arbuckle, era, allora, per chi non lo sapesse, il comico più famoso del mondo. Figuratevi, Buster Keaton diceva che tutto quello che sapeva sul Cinema lo aveva imparato da Lui. Guadagnava più del presidente degli Stati Uniti. Era stato il primo a firmare un contratto in esclusiva per ventidue film. La Paramount pagava un ingaggio anche al suo cane. I bambini lo adoravano; del resto, portava alto il vessillo dell’intrattenimento per famiglie. Era alto, grosso e con un bel faccione bonario… Fatty… lombrosiane teorie lo vollero colpevole, solo per via delle sue insolite fattezze.

Avete presenti quei gialli dalle soluzioni labirintiche? Quelli appassionanti, nonostante l’accaduto, proprio poiché non si riesce a dare un’identità al colpevole? Ebbene, questa è una di quelle volte. Una di quelle in cui nemmeno tre processi possono bastare, per dissipare la nebbia.

Appena dopo, il procuratore convocò Fatty per – come disse? – ‘chiarimenti in relazione alla mia morte‘. La definì ‘misteriosa’…

Beh, un pezzetto di palco, prima di raccontarvi cosa accadde, me lo voglio accaparrare. Mi spetta di diritto… o no? Per un breve istante, esigo tutta l’attenzione rivolta su di me. Sono Io la vittima, l’agnello sacrificale. Sono io l’ingenua… la stupida… starete probabilmente pensando.

Dunque, sono nata a Chicago. Un’orfana. Mia madre l’ho persa, che avevo appena 11 anni. A 14, iniziai a lavorare come modella. Ero ‘La ragazza con la cuffietta‘. Mi soprannominarono così, per via della copertina dello spartito di una canzonetta: Let Me Call You Sweetheart, che ai tempi riscuoteva un certo clamore. Posavo, con indosso una cuffietta e allora… Nel 1917, mi trasferii ad Hollywood. Mi attendeva il mio primo film: Paradise Garden. Interpretavo il personaggio di Marcia Van Wyck. Non suona bene? Nel 1918, ancora Balshofer mi convocò, per recitare nel ruolo di comprimaria accanto – pensate – a Rodolfo Valentino. Over The Rhine, il film. Pellicola, tra l’altro, rimontata successivamente e fatta uscire nelle sale con un titolo diverso. Venni persino premiata: Best Dressed Girl in Pictures. Insomma, mi sapevo distinguere. Ve l’ho detto, d’altronde, avevo fame.

In seguito, Mack Sennett, un famoso produttore, mi aprì le porte del suo studio. Oh, una serie di partecipazioni in qualche film, ma tant’è, da qualche parte dovevo pur iniziare. Non trascorse un anno, che incontrai Henry Lehrman. Un pioniere, nel Cinema. Fu il primo regista di Charlie Chaplin. Mi affidò un piccolo ruolo in un suo film e, tempo dopo, fu proprio Lui a presentarmi Fatty.

Tutto qui. Eccomi raccontata in poche righe. Riassunta, come una delle tante. Vediamo: numero…? Domattina – ci scommetto – vi sarete già dimenticati di me.

Roscoe Arbuckle

Tutto accadde, nel giorno del Labor Day. Roscoe aveva, di recente, firmato un contratto milionario. Aveva, pertanto, deciso di festeggiare. Un’atto di coraggio, mettiamola così, benché avesse subito un’accidentale ustione con l’acido sulle natiche, proprio alla vigilia della partenza e la sua auto avesse riscontrato una serie di problemi. In ‘missione’, in quel di San Francisco, con due tra i suoi amici più cari. Affittò tre suite comunicanti e presso il St. Francis Hotel diede una gran festa. Tanto bere, ve lo ripeto, in barba al proibizionismo e – inevitabile – parecchi imbucati. C’ero anche io – questo, oramai, lo avrete intuito – e con me, Maude Delmont. Sarebbe stata, poi, proprio Lei ad accusare Fatty.

Quattro giorni di agonia. I dolori ve li ho descritti. In quella stanza 1221 – o, forse, era la 1219, ora non ricordo con precisione… – secondo quanto riportato dalla stessa Maude, i bagordi si interruppero bruscamente quando, dalla camera da letto dove mi trovavo con Roscoe, giunsero grida agghiaccianti. Arbuckle si affacciò dalla porta con un risolino noncurante, indosso, anche Lui, il pigiama ridotto in pezzi e il mio cappellino poggiato sulla testa. Ordinò alle ragazze di rivestirmi e di riportarmi al Palace, dove alloggiavo. “Fa troppo chiasso“, lamentò, stizzito. Io ero lì, intanto, nuda, più o meno, che mi contorcevo, urlando. “Muoio.. muoio.. mi ha fatto male“. Un’intossicazione. Tra le bevande e gli stupefacenti cosa c’era da aspettarsi, se non questo? Anche se rimanevano da spiegare i crampi al basso ventre. Fui condotta presso l’ospedale di Pine Street e c’è chi sostiene che, rivolgendomi ad un’infermiera, le abbia sussurrato: “È stato Fatty a ridurmi così… vi prego, fate che non la passi liscia“.

Quattro giorni, poi me ne andai, con la vescica che risultava lacerata.

Prese il via, su queste basi, il processo. Un procedimento mediatico, prima ancora di giungere in tribunale. Maude era convinta che il prolasso delle carni fosse avvenuto durante lo stupro, per via dell’esorbitante peso di Fatty. ‘Roscoe Arbuckle coinvolto in un’orgia mortale‘. ‘Il violentatore balla, mentre la vittima muore‘, titolavano i giornali del 10 settembre.

Presero a diffondersi – anche questo, prevedibile – particolari macabri, mai confermati: le sevizie con un punteruolo, ad esempio; poi, con una bottiglia. Chi racconta di Coca cola; chi, più elegantemente, di Champagne…. Ecco, il dibattito esordì in questo clima. Il procuratore Brady, da una parte, sicuro della colpevolezza dell’imputato e un dream team di avvocati dall’altra, messi a disposizione direttamente dalla Paramount. Uno scontro epocale. Immaginate, con i testimoni d’accusa presi a contraddirsi l’uno con l’altro. Troppo, anche Maude… Fatty si seppe difendere, tanto che la giuria gli diede credito. Nella sua versione, mi avrebbe trovata in bagno, intenta a vomitare e mi sarebbe rimasto accanto per una decina di minuti, dopo avermi fatta sdraiare. Certa era la condizione della camera, completamente devastata.

Riteniamo che, nei confronti di Fatty, si sia commessa una grande ingiustizia“, così recitava il verdetto. “Quanto accaduto all’hotel è una disgrazia, di cui Arbuckle non è stato in alcun modo responsabile“.

Restavano i dubbi, le ipotesi, mai verificate… L’autopsia stabilì che ero deceduta – la parola morta, perdonatemi, mi duole usarla – a causa di una peritonite acuta, ma era stata condotta in modo oscuro, frettoloso, segreto, da far sospettare un tentativo di insabbiamento. Il vice-medico legale di San Francisco, Michael Brown, si recò personalmente in ospedale, dove ebbe modo di constatare una frenetica attività di copertura: un dottore venne sorpreso, mentre si avviava all’inceneritore con un barattolo contenente… sì, contenente i resti dei miei organi femminili lesionati.

Le indagini parlavano chiaro: violenza carnale, omicidio e c’era, financo, chi riteneva si trattasse di un macchinoso complotto per far fuori, in verità, proprio Fatty. Io, insomma, ero servita a questo, ad eliminarlo dalle scene, insulsa pedina in una trama assai più gigante di me. Zukor, in sintesi, Adolph Zucor, vero boss della Hollywood degli Anni ruggenti, noto imprenditore, spietato e privo di scrupoli, mi avrebbe adoperata per i suoi personali fini. Esistevano due assegni a confermare l’eventualità, staccati da Zukor, in favore del procuratore Brady.

I processi a carico di Arbuckle, nel complesso – vi anticipavo – furono tre. L’arresto, lo ricorda l’Independent, avvenne nell’immediato. Nel 1921, con la giuria in stallo, il procedimento venne invalidato per un errore. Medesimo destino, nel febbraio del ’22. Ad aprile, poi, Arbuckle venne assolto.

Potreste pensare che sia qui, il lato peggiore della faccenda. Invece no. Quello che più mi distrugge e mi umilia è il modo in cui mi dipinsero. Libertina, ubriacona; una con, alle spalle, uno stuolo di aborti; addirittura, alcuni si spinsero nel congetturare una figlia illegittima. Dio mio, che vergogna…

Roscoe Fatty Arbuckle, in ogni caso, era finito. A poco valse la riabilitazione in aula. A nulla, o quasi, servì la nota di stampa, erroneamente attribuita alla giuria, che l’avrebbe riabilitato: “L’assoluzione non è sufficiente per Roscoe Arbuckle. Riteniamo che gli sia stata fatta una grave ingiustizia e che non vi fosse la minima prova che lo collegasse, in alcun modo, alla commissione di alcun crimine. Gli auguriamo successo e speriamo che il popolo americano accetti il giudizio di quattordici uomini e donne, secondo cui Roscoe Arbuckle è del tutto innocente e libero da ogni colpa“.

La sua carriera era all’angolo. Nel 1922, la censura vietò la distribuzione di tutti i suoi film e vennero ritirati quelli in circolazione. Spesso, l’amico Buster Keaton lo aiutò finanziariamente – e, anzi, Arbuckle provò anche a riciclarsi come regista, utilizzando pseudonimi. Will B. Good era – manco a farlo apposta – uno tra questi. Will be good, capite? Farò il bravo, come se avesse commesso una marachella…

Nel 1933, gli fu permesso di utilizzare nuovamente il suo nome in un lungometraggio. Morì il giorno dopo la firma del contratto, per un attacco di cuore. Di Lui – di fatto – delle sue traversie giudiziarie, del suo talento… si continua a parlare. Molto meno si dice di me. Quella che avrebbe desiderato lasciare un’impronta significativa nella Storia del Cinema e, invece, non c’era riuscita o non le avevano concesso il tempo per farlo.

Resta, ad oggi, una lapide: semplice, spoglia. Si trova ai piedi di un albero, all’Hollywood Forever Cemetery. Io sono lì. In attesa di essere scoperta. Nella volontà di esser vista, notata; di dimostrare quel che valgo, chi sono. Conservo ancora intatte le aspirazioni. Ho nostalgia, sotto terra, di quella Luce che – ne sono certa – era fatta per me. Mi apparteneva ed io, per mio conto, sembravo disegnata apposta per lei.

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