La ninfetta Mary e il satiro Desmond
‘Mi spoglio. Lui mi sta ancora guardando. Non si stanca… di guardarmi. I suoi occhi mi rimangono appiccicati addosso, come se mi marchiassero la pelle. Brucia, l’effetto dei suoi baci ed io non posso far altro che cedere…‘. Gli ho scritto un biglietto, di recente. “Carissimo – recita – ti amo, ti amo, ti amo. XXXXXXXXXX. Sempre tua! Mary“.
La carta da lettere rosa pallido, purtroppo, tradisce il mittente. Del resto, è adorna del monogramma M.M.M. Già… Mary Miles Minter. Oh, non che me ne dispiaccia, non mi pento di ciò che provo… di ciò che ho provato per… sì, per Lui. Ma adesso è tardi.
Strano come mi capiti, spesso, troppo spesso, di trovarmi coinvolta in fatti, quanto meno ambigui. Da piccola, mentre ero impegnata in una produzione teatrale, mia madre, per spuntarla su chi intendeva proteggere i diritti dei minori – avevo appena undici anni – e far sì che continuassi a lavorare, falsificò il mio atto di nascita. Lo sostituì con quello di mia sorella, più grande. Morta. In meno di una settimana guadagnai, in sintesi, cinque anni in più e potei ‘liberamente’ tornare ad esibirmi. Ero, allora e lo rimasi per diverso tempo, il contraltare di Mary Pickford; così, quando questa decise di abbandonare la Paramount fui assunta io. Presi il suo posto. Era il 1919.
Fu in tali circostanze che conobbi… Lui. Già, Lui. Lui cinquantenne. Io, sì e no ventenne. William Desmond Taylor. Ero la sua pupilla. La sua Anna dagli occhi verdi. Mi dirigeva… andavamo a letto insieme. Decoro, che parola stupida; priva di fascino… Io preferisco di gran lunga passione. Smarrimento… Non trovate anche voi che siano, anche solo nel pronunciarle, assai più interessanti?
William e quel suo corpo, ritrovato il 2 febbraio 1922 steso a terra, supino, come in trance. Le braccia erano aperte, la sedia rovesciata sulle gambe e due proiettili che devono avergli trapassato la schiena e raggiunto il cuore, a mettere in chiaro che la faccenda era definitiva. Nel piccolo parco residenziale di Alvarado Street era successo. Nel placido quartiere di Westlake, a Los Angeles, qualcuno gli aveva puntato una pistola addosso e lo aveva ucciso. Aveva fatto fuori il regista numero uno della Famous Player Lasky, una filiale della Paramount. Uh, un ‘pezzo grosso’.
L’enorme brillante che indossava ancora, la mattina successiva all’omicidio, quando fu ritrovato dal cameriere, stava lì a testimoniare che non si era trattato di un furto. Il suo portafortuna, buffo, era salvo. Non se ne era mai separato, dopo il successo del suo primo film: Diamond from the sky. Lui, invece, Desmond, non c’era più.
“Amavo William Desmond Taylor. Lo amavo profondamente e teneramente, con tutta l’ammirazione e la devozione di una giovinetta, per un uomo della classe e della posizione del Signor Taylor“. Eccolo, il resoconto della mia deposizione, appena interrogata.
Al funerale sono rimasti tutti sconvolti. Sì, l’ho baciato. L’ho baciato in bocca. Ebbene? E Lui mi ha mormorato qualcosa… mi è parso: “Ti amerò per sempre, Mary!“. Ve lo giuro, me lo ha detto. Bacchettoni, non potete credere che sia così? Che sia vero? Per voi, in fondo, che cambia! La polizia non molla con queste indagini. D’altronde, negli ultimi tempi non si parla d’altro. Siamo, noi tutti burattini di Hollywood, sulle prime pagine dei giornali.
Nell’armadio di Will, in un armadio chiuso a chiave, in camera da letto, hanno scovato una serie di indumenti… beh… diciamo sospetti. C’era di tutto: biancheria, soprattutto. Intimo da Signora, munito di cartellino, con tanto di data e nome d’appartenenza. Resocontato, insomma, alla stregua di un archivio. C’era anche la mia camicia da notte, in seta, velatissima, anch’essa contraddistinta da monogramma, squisitamente ricamato. Tanto è bastato, per fare di me non solo l’ennesima preda di un Mangiafemmine – così lo hanno definito – ma una presunta omicida e per mandare in frantumi la mia carriera.
Oh, non sono stata io, ve lo giuro. Non sono colpevole. Sì, è vero, sono tra le ultime ad averlo visto, quella sera. Sì, lo so lo so, Lui intratteneva una relazione persino con mia madre… ma non è così. Non è andata come credete. Davvero!
Quella mattina, la mattina in cui l’hanno ritrovato, il trambusto è stato generale. Edna Purviance, vicina di boungalow – mettiamola così – telefonò immediatamente a Mabel Normand. Mabel, a sua volta, avvisò Charles Eyton, direttore generale della Casa Cinematografica, che chiamò Zukor. Edna chiamò anche me, quella mattina o, almeno, ci provò. Rintracciò mia madre, in compenso. Di costoro, badate bene, nessuno – ribadisco, nessuno – pensò di avvisare la polizia. Avevano ben altro a cui pensare. Chi era in cerca di scritti compromettenti; chi era indaffarato a far sparire le tracce di liquori clandestini; chi, a cancellare quelle di un eccessivo libertinaggio.
Charlotte Shelby, mia madre, corse anche lei ad avvisarmi. Eravamo addolorate. Io lo ero, sinceramente.
I rappresentanti dell’Ordine giunsero, solo in tarda mattinata. Nel caminetto, oramai, ardevano ‘unicamente’ i detriti di eventuali carte compromettenti. Mabel, intanto, Stella di punta di Sennett – avete presente, Mack Sennett? – era affaccendata a rovistare ovunque. Frugava di qua e di là, sperando di uscirne ‘pulita’, senza che nessun altro potesse mettere le mani o, peggio, gli occhi su quel materiale ‘scottante’, rimasto inavvertitamente a casa di Lui. La scena del delitto, in breve, aveva smarrito la sua verginità. Ciò nonostante, le foto – un mazzo di foto pornografiche ritraenti alcune tra le più promettenti Dive di Hollywood – erano lì. Furono recuperate, all’interno di un cassetto, sotto una folta serie di copioni.
Immagini capricciose, che ritraevano il mio Dongiovanni alle prese con attrici di primo piano, in imprese… immaginatelo da voi. Ficcate dentro uno stivale da equitazione, egregiamente nascoste, c’erano anche le lettere che avevano tanto tenuto Mabel in ansia. Lo ammise, poi, Mabel. Disse che lo aveva fatto “per impedire che innocenti espressioni di tenerezza venissero fraintese…“. Fu facile, per Lei, ripulirsi la faccia. Io non ebbi la medesima fortuna. La mia di lettera, ve lo accennavo, stava nascosta tra le pagine di White Stain, un libro erotico di Aleister Crowley. Una paginetta profumata, niente di più.
Come nei migliori romanzi gialli, poi, questa storia brilla per i suoi personaggi. Il cameriere – di cui vi accennavo – soprano, che si dilettava a fare sciarpe e centrini all’uncinetto; c’era il maggiordomo, Sands, fratello minore del defunto – ma questo si venne a sapere solo più tardi – dai trascorsi discutibili e che, ovviamente, si era reso, nel frattempo, irreperibile. Si venne, pure, a conoscenza del fatto che quella notte, la notte del delitto, intendo, sia io, sia Mabel avevamo fatto visita a Will. Meglio, Mabel era passata la mattina, alle 7.00 circa ed era rimasta per un po’. Al momento di separarsi, Desmond le aveva persino fatto omaggio dell’ultimo volume di Freud.
Ecco, dieci minuti dopo l’uscita della donna, la vicina aveva nitidamente riconosciuto il rumore di uno sparo. Anzi no, non era affatto certa che si trattasse di un colpo d’arma da fuoco. Tuttavia, il frastuono, quello sì, le era rimasto impresso, come pure il fatto che, affacciandosi, aveva notato un uomo allontanarsi lungo il vialetto. Un uomo? Non era sicura nemmeno di questo, che si trattasse di un uomo. Nel senso, era vestito come un uomo: il cappotto pesante e la sciarpa, che arrivava fin sopra il mento. Portava anche un cappello, sulla testa, un berretto tirato sugli occhi, ma l’aspetto, di suo, risultava ‘strano’. Ancheggiava come una donna e procedeva a passi svelti e brevi. I fianchi erano larghi, le gambe corte… I conti, insomma, non tornavano.
Mia madre, ai tempi, possedeva una trentotto, dotata di calcio in madreperla. Era stata vista esercitarsi spesso, nei giorni precedenti a quello in questione, ma rifiuto l’idea. Sarebbe troppo doloroso… Sospettata, le fu comunque consentito di allontanarsi, prima ancora di venire interrogata.
Oh William, tu e quella tua vita disinibita, sfrenata… Lo scapolo di successo non era altri che – nome all’anagrafe, tale William Cunningham Deane-Tanner – sparito dalla sua abitazione di New York nel 1908, lasciando, ad attenderlo, moglie e figlioletta. In più, c’era di mezzo la droga. Marijuana, oppio, morfina… scegliete a vostro piacimento. Ne girava tanta, servita sui carrellini da tè ai clienti di ‘certi’ locali.
Cominciò a girare la voce che ne facesse largo uso, assieme al mio bon vivant, anche Mabel. Una cifra mensile – tale si narrava fosse la spesa – di duemila dollari, ricatto compreso. Furono proprio queste chiacchiere a rovinarla. Si raccontava, sul suo conto, che fosse esageratamente ‘adulterata’, per prestarsi ad un consumo familiare. Di colpo, la deliziosa comédienne di tante farse non era più la cocca dei suoi fan.
Depravati, tutti. Io per prima. Deve essere stato destino. Più tardi, nel 1964, l’attrice Margaret Gibson, che all’epoca aveva 27 anni, confessò – in punto di morte – di essere lei la responsabile. Seppur veritiera, come ammissione, il caso rimase ufficialmente irrisolto.
Il fato. Deve essere stato Lui, il vero colpevole. Il mio ultimo film si intitolava: The drums of Fate – I tamburi del destino). Mi ritirai, forzatamente. Scappai in Francia. Cominciai a mangiare. Terminai i miei giorni grassa, sfatta. E mentre si invocavano strette clausole morali a vincolare le gesta di attori e attrici, i magnati del Cinema si preoccupavano. No, non certo per l’Ira Divina. Temevano – cosa assai più grave – le possibili ripercussioni al botteghino…
LEGGI ANCHE: Disastro ad Hollywood: la prima volta fu Olive Thomas
LEGGI ANCHE: Virginia: parabola di una Stella ‘cadente’