Turetta: Jekill vs. Hide. Il romanzo d’appendice che non vorremmo mai sfogliare…

Turetta: Jekill vs. Hide. Il romanzo d’appendice che non vorremmo mai sfogliare…

Debolezze… da genitore, mettiamola così. Fragilità da padre. Del resto, sfidiamo chiunque ad indossare i panni, a dir poco imbarazzanti, di ‘figura di riferimento’, in una storia pesantissima come quella che riguarda il Caso Turetta. Filippo chiuso in carcere, legittimamente, dopo l’omicidio, peraltro confessato, di Giulia Cecchettin.

Le coltellate e lo strazio, più in generale, di quella fantomatica serata li conosciamo tutti. Sappiamo anche della posizione di mamma e papà di Lui, rimasti inevitabilmente spiazzati, sopraffatti, soprattutto all’inizio della faccenda, nel prendere atto di un figlio, che poco o nulla si conosceva.

Di qui, la messa in discussione, doverosa per individui che si rispettino e il meticoloso lavoro al perdono: di se stessi, dell’educazione che si è impartita sperando di far bene, dell’essere umano che si è messo al mondo e che, a dispetto di tutto, denuncia tratti da belva.

Capire cosa ci sia dietro non solo è giusto e legittimo ma è, appunto, necessario, doveroso, lo ripetiamo, in circostanze di tal fatta. Tuttavia, quando non si è – forse – abituati alla riflessione, all’elaborazione analitica e attenta dei dati, per far bene – ci permettiamo di dire – si rischia, talvolta – di accrescere i danni.

Si viene – pertanto – a sapere, ora, di un dialogo tra papà Nicola e Filippo. Il primo incontro, datato 3 dicembre 2023. Il primo approccio – disperato, chissà – con un figlio che, con tutta probabilità – ribadiamo – si fa fatica a riconoscere. Allora che si fa? Come ci si comporta? A fronte della condanna perentoria rilasciata a media e giornali, l’uomo afferma, rivolgendosi al figlio: “Eh va be. Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso. Non sei uno che ammazza le persone. Hai avuto un momento di debolezza. Quello è! Non sei un terrorista, voglio dire. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri. Però, ti devi laureare“. Parole, con tutta evidenza, dettate dal momento ma che, adesso danno adito a un nuovo chiacchierare. Non solo, costituiscono parte integrante del processo a carico del ragazzo. Il prossimo 23 settembre, nel corso della prima udienza che verrà celebrata davanti ai giudici della Corte d’Assise di Venezia, si discuterà anche del suddetto colloquio.

Un invito alla tranquillità, secondo alcuni; l’esortazione a non commettere ulteriori gesti assurdi. La presa d’atto della vulnerabilità della propria prole, di fatto. Filippo domanda al padre se, per caso, per colpa sua, abbia perso il posto di lavoro. Così, Nicola opera per ammansirlo, per rassicurarlo. “Ci sono altri 200 femminicidi! Poi avrai i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale. Non sei stato te, non ti devi dare colpe, perché tu non potevi controllarti“.

Non certo farina del proprio sacco, ovvio o così ci obbligano a pensare la lunga attesa e gli intensi appuntamenti con gli psicologi, prima del vis a vis. Lo stato di inevitabile incredulità e, insieme, la paura, sottesa, che possa verificarsi qualcosa di orribile, dentro, al di là delle sbarre; che la vita del giovane sia in pericolo, a sua volta. Filippo, dal canto suo, teme che il legale lo abbandoni e denuncia, ancora per l’ennesima circostanza, una deficienza nel non tenere conto delle cose, per quelle che sono. Immerso nel personale universo, dove tutto è bianco o nero. Dove, a fronte di un eventuale errore, non sussiste possibilità di recupero. Dove i colori sono assenti, oppure accesi e, quando succede, si fanno intrisi del rosso scarlatto e furente del sangue.

Ecco, questo il racconto, in breve, dei più recenti accadimenti. Resta la domanda. Anzi, rimane uno stuolo di domande, non tanto sul comportamento dell’omicida, quanto piuttosto, sul quel che c’è dietro. Un mondo che tende a rimanere nascosto, che resta inafferrabile. Il mondo scomposto delle emozioni, come un puzzle che non trova soluzioni, che spinge un ragazzo innamorato o che, semplicemente, si crede tale, a compiere il più truce dei crimini.

Suona di vuoto, tutto questo, di un vuoto profondo. Assume le sembianze di una latitanza affettiva incolmabile e, sia chiaro, nessuno vuole prendersela con il Signore o la Signora Turetta che, di certo, lungo il corso degli anni avranno voluto agire per il meglio, ma spaventa, comunque e inevitabilmente, la fotografia di una ‘normalità‘ – o supposta tale – che conduce dritta dritta verso un omicidio immotivato, senza senso e che trascina giù tutti, al di là della vittima.

Siamo qui, radunati assieme, spettatori e attivamente partecipi – complici? – di una realtà che asseriamo non piacerci, non assomigliarci ma poi, quando si tratta, seriamente, di attivarci per cambiarla dov’è che ci posizioniamo? Rifugiati ‘altrove’ e da lì, da quel posto sicuro, attenti semmai a giudicare.

Giustificati dalle incombenze, dall’enorme mole di lavoro, dagli impegni… Il quotidiano ci rammenta quanto sia difficile vivere. Noi comprendiamo – come nel gioco del telefono senza fili – che, in fondo, finché non ci capita, è meglio far finta di niente. Poi, un bel giorno, inaspettatamente, il destino suona alla porta, la nostra porta e l’impalcatura crolla, assumendo le sembianze di un incubo. Ed è il peggiore degli incubi, in quel caso, da cui svegliarsi risulta impossibile.

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