Il Decameron? Adesso ce lo racconta Netflix, a modo suo
Dire che stiamo parlando del Trecento e, invece, si presenta, firmata Netflix, sferzante ed enormemente ironica, la serie The Decameron, raccolta – niente affatto inedita – delle novelle scritte da Giovanni Boccaccio. Episodi disponibili dal 25 luglio su piattaforma che, sin dal Trailer, forniscono chiaro il sapore di quel che ci si può attendere.
E già veniamo a sapere dell’apprezzamento degli spettatori, per via del “design lussuoso, della comicità anticonformista…“. Il pregio, tuttavia, quello più evidente, almeno, sta nel ritratto dei personaggi, cesellati – nei loro aspetti migliori come nei difetti più manifesti – in maniera tale da renderli attuali, freschi, quasi… familiari. Un mondo ‘paritario’, fatto di eroi e di malvagi e che, perciò, piace.
A tutti? No, non a tutti. A quanto pare c’è chi intravede, negli 8 episodi, una rilettura “terribilmente, ridicolmente e inutilmente sbagliata“, dell’opera originale. Del resto, va da sé, non a tutti si può esser graditi.
Si presenta, di fatto, la rivisitazione, alla guisa di commedia dark in stile soap, che analizza il tema fin troppo contemporaneo dei conflitti di classe, in tempo di pandemia. Così recita la sinossi: la Firenze del 1348 è una città tormentata dalla peste nera, quando alcuni nobili, con servitù al seguito, decidono di prendersi una vacanza e rifugiarsi in una villa maestosa, fino alla fine della pestilenza. Ma, mentre le convenzioni sociali si sgretolano, la lotta per la sopravvivenza si fa dura tra personaggi, al contempo astuti e irriverenti.
Ecco, tutto qui e, per l’ennesima circostanza, non è tanto il cosa, quanto il come venga esposto un determinato argomento e tutto il contesto che ad esso appartiene. Certo, dell’opera letteraria è rimasta unicamente l’ambientazione ma tant’è. Da pubblico interessato ne siamo consapevoli, sin dalle prime battute. Non ci aspettiamo il ‘capolavoro’, bensì un’ora – questa la durata, all’incirca, di ogni episodio – di amene risate.
Diretta da Michael Uppendahl – lo stesso di American Crime Story e Fargo, per capire di chi parliamo – la serie ci trasporta in una Toscana, anch’essa fittizia, studiatamente ricreata ad arte. In verità, ci troviamo tra Roma e il Castello Ruspoli, in provincia di Viterbo. Soprattutto, scarsa di pretese, si presenta apertamente come “una storia di sesso intriso di vino, nella campagna italiana“. Una storia, vien quasi da dire alla Mel Brooks, dove le battute ci sono ma non sono scontate. Dove si ride, ma ci si può anche distrarre. Dove la giusta dose di cinismo viene servita su piatti che ospitano, nel contempo, manipoli di banditi assortiti, fanatici, combattimenti con le spade, risse e, va da sé, bubboni pestilenziali.
Piatto ghiotto, dovutamente estivo, da gustare al fresco, magari la sera, dopo aver fatto baldoria; magari insieme, per poter ridere in compagnia.
“Mi piaceva l’idea di un gruppo di gente facoltosa che utilizza la propria fortuna per sfuggire la peste“, racconta la showrunner Kathleen Jordan e rielabora, a suo modo, il concetto di lotta sociale, facendogli assumere un andamento leggero; anzi, leggiadro, che non significa – tuttavia – meno veritiero. Non c’è nulla di edulcorato, nelle scene. Solo il lusso di una frivolezza che tutta attiene alla commedia e che fa dire allo spettatore, favorevolmente impressionato: “Sai che c’è? Stasera, quasi quasi, non esco e rimango a guardare!”
Ps. Spassoso, nuovo, interessante, secondo quanto scritto da altri, onore al merito alle scelte delle musiche e alla sigla iniziale, che lo rendono un prodotto decisamente Rock and Roll.
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