Tra follia e verità, storia del racconto crudo di Margot
La vicenda – magari – è poco nota ma, sapientemente narrata nel romanzo scritto da Rossella Postorino – Le assaggiatrici, edito da Feltrinelli – riporta alla luce accadimenti determinanti del passato, dall’inevitabile impatto, storico e umano.
DAL LIBRO AL FILM
Tant’è, vincitore del Premio Campiello nel 2018 e tradotto in oltre trenta lingue, il libro prosegue il suo corso, acclamato prima nella riproposizione teatrale – con Silvia Gallerano e Alessia Giangiuliani – in scena al Carcano di Milano; adesso, grazie alla pellicola, firmata da Silvio Soldini. A dimostrazione che, quando c’è una storia potente da raccontare, il tempo conta poco e la risonanza sul pubblico, a dispetto di tutto, rimane intatta.

LA TRAMA
L’opera segue, infatti, gli accadimenti che riguardano Rosa, una giovane donna costretta a mangiare il cibo destinato ad Adolf Hitler, per verificarne l’eventuale presenza di veleni. Una storia di finzione, ben inteso, che – però – affonda le radici in una drammatica realtà. Margot Wölk è l’unica ‘assaggiatrice‘ sopravvissuta all’Olocausto che, per decenni, ha preferito tacere, riguardo alla sua esperienza, a dir poco traumatica. L’ha rivelata solo più in là, nel corso di un’intervista a Der Spiegel, poi riportata da ABC News, riaprendo così il triste capitolo inerente alla tragedia operata nella Seconda Guerra Mondiale.
RACCAPRICCIANTE
Scendendo nel dettaglio, la donna nacque nel 1917, a Berlino, in una famiglia della piccola borghesia. L’infanzia trascorsa tra le difficoltà economiche della Repubblica di Weimar e le trasformazioni politiche che portarono alla nascita del regime nazista fece da corollario ai suoi studi. Stenografia e segretariato, nel particolare, che le garantirono un impiego presso alcune aziende. Dopo il matrimonio con un impiegato della Reichsbahn, tale Karl Wölk, l’esistenza le venne sconvolta dalla partenza del marito per il fronte e dai bombardamenti su Berlino. Rifugiatasi – quindi – nella Prussia orientale, Margot finì nella cittadina di Gross-Partsch, nei pressi della cosiddetta Tana del Lupo. Il quartier generale di Hitler, per intenderci. Fu proprio qui che, nel 1942, venne costretta ad unirsi ad un gruppo di altre giovani, con il compito di testare sulla propria pelle il cibo del Führer.
Responsabilità evidentemente agghiacciante, visti i rischi. Significava vivere ogni pasto come potenziale ‘ultimo’. Insieme alle sue compagne di sventura, quattordici in tutto, veniva infatti condotta quotidianamente in una sala sorvegliata, dove piatti abbondanti e ricercati aspettavano di essere consumati, sotto la stretta osservazione delle SS.
“Tutti pensano che morissimo di fame; mentre il problema era il contrario. Dovevamo mangiare forzatamente, senza sapere se quel boccone ci avrebbe uccise“, racconterà, poi, in prima persona.
Vivere – insomma – avvolte dal terrore costante, dal senso di angoscia soffocante che le attanagliava, sorta di cavie da laboratorio, ogni volta che terminavano di mangiare e bisognava attendere. Lasciare che trascorresse almeno un’ora, strettamente sorvegliate, per verificare che non si manifestasse alcuna sorta di effetto collaterale. Una guerra aspra, anche quella che, ad un certo punto, finì per affiorare tra le diverse vittime di questo andirivieni precario, malsicuro, privo di qualsiasi forma di libertà. Oppressione, che assunse presto le sembianze di scarsa fiducia, nei confronti persino l’una dell’altra.
Nel luglio del 1944, poi, finalmente, la svolta. Il fallito attentato contro Hitler da parte dell’operazione Valchiria accese nuovi sospetti, inasprendo i controlli e rendendo ancora più dura la vita delle assaggiatrici. A dicembre dello stesso anno, Margot riuscì a fuggire, prima dell’arrivo dell’Armata Rossa; evento che segnò la fine tragica delle sue compagne. Fuga che, tuttavia, non valse a garantirle la libertà: catturata dai soldati sovietici, subì ogni sorta di violenza e maltrattamento, prima di riuscire a tornare a Berlino.
RIABILITAZIONE
A seguire, il silenzio. Un vuoto impetuoso, costellato dal ricordo dei soprusi – tra cui anche l’impossibilità di avere figli – e delle angherie subite. Fin quando, nell’inverno del 2012, non decise di divulgare i fatti che l’avevano vista protagonista. “Non volevo che la mia storia morisse con me“.
Margot Wölk si spense due anni dopo, nel 2014, lasciandosi dietro una testimonianza, dall’inestimabile valore, che ha permesso di portare all’occhio dei più le inaccettabili pratiche messe in atto dalla follia di un regime che andrebbe tenuta a mente, per mai più ripetersi.
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