Anna, cortigiana arrogante, punita dall’amore
Quando si dice un Fiore Nero… vivace, ribelle, l’hanno definita in tutti i modi. Così, d’altronde, ce la racconta la storia. Donna, in un Mondo cha apparteneva agli uomini.
Una fedifraga: discinta, lussuriosa. Gran puttana del Re, che seppe farsi Regina. Anna Bolena: è bastato il suo nome, per modificare le sorti delle Cristianità…
“Fatevi da parte. Non ho voglia di raccontare. A che servirebbe, poi? Non mi avete già giudicata? E chissà quante volte… Adesso asserite che vi interessa la mia versione. Non vi sembra troppo tardi? Che servirebbe rivangare? Riaprire una ferita che fa ancora male…
State zitti, ve lo ordino. Rispettatelo questo mio dolore. Almeno ora.
Sssst! Fate silenzio. Non occorre insistere… e sia. Intorno al 1501. Dicono che sia nata proprio allora, presso il Castello di Hever, nella campagna del Kent. Mary, Giorgio… sono cresciuta insieme a loro. Dire che Lui l’ho visto morire davanti ai miei occhi. La sua vita, quella del mio Giorgio, indissolubilmente legata alla mia. Chi altri mi vorrebbe per sorella?
Eppure, allora sembrava tutto così semplice. Così gioioso… Cosa possiedo di diverso dalle altre? Io, so. Conosco la grammatica, il canto, pratico il ricamo, ma anche la falconeria. So danzare, tirare con l’arco. Non esiste mistero nel Galateo che, per me, non appaia svelato. Proprio come si conviene alle damigelle di buona famiglia. Soddisfatti? Non c’è ombra, mi dispiace. Era tutto così normale...
Mio padre, dite? Lo definite arrivista. Era uno che, pur provenendo da una ricca famiglia di mercanti, a soli 22 anni aveva già intrapreso la carriera di Diplomatico. Ambasciatore all’Estero, in nome del Re. Questo è talento, Signori!
Volete vederla altrimenti? Ebbene, allora fu il mio lasciapassare a Corte. A 12 anni ero Damigella d’Onore per Margherita d’Asburgo, poi per la Regina Claude di Francia.
Mi sono forgiata di sapere. Amavo la poesia e l’arte. Debole verso le storie d’Amor Cortese, mi rendevo forte attraverso la filosofia. Rientrata a casa, mi introdussi immediatamente nei panni di dama di compagnia delle Regina. Caterina D’Aragona. La sbirciavo, di sottecchi. Così ieratica. Tutt’altro rispetto a me.
Avrei dovuto avere pietà, ma Io ero un fuoco. Ed iniziai ad ardere. Non la ebbero, loro, di me, del resto, quando mi innamorai di Henry Percy, il conte Henry Percy… Ci amavamo: “in questa faccenda ci siamo spinti talmente tanto avanti e davanti a tali e tanti testimoni, che non saprei come farmi da parte e liberare la mia coscienza”. A nulla valsero le sue parole. Si decise che sposasse Mary Talbolt. La faccenda si chiuse così.
Io, allontanata, fin quando, rientrata a Corte, non ebbi a che fare con Lui. Sua Maestà in persona mi aveva posato gli occhi addosso. Capelli corvini – si racconta di me – occhi da cerbiatta. E Lui presuntuoso, come sanno esserlo gli uomini. E viziato… Mi voleva, coma Amante Ufficiale. Ma come si permetteva? Insolente, pensai. Non avrei mai accettato di fare la fine di mia sorella. E mi ritirai, educatamente, come si conviene alle Signore.
Fu così che iniziò, come una sorta di guerra. Enrico era ossessionato. Mi desiderava, a qualsiasi costo. Lettere, doni, gioielli… qualsiasi donna sarebbe crollata. Qualsiasi. Non Io. Io ero diversa… gli negai lo sguardo, non l’inchino. Lo percepivo, mentre mi osservava civettare con i Cortigiani. Lo sfidavo, a modo mio… Mai avrei accettato di entrate nel suo letto, così, priva di ruolo.
Lo convinsi, a piccoli passi, a suon di sussurri… Sarebbe bastato un annullamento del matrimonio. Roma lo avrebbe concesso, d’altronde. Caterina era incapace di dare al Re un figlio maschio. Io ne avrei preso naturalmente il posto: tra le lenzuola, nel cuore, nel Governo… dappertutto.
Iniziammo a recarci a caccia, insieme. Presenziavamo alle Cerimonie Ufficiali, uno accanto all’altra. Eravamo inseparabili. Ma non crediate, stentavo a concedermi. Trascorsero 5 lunghi anni prima che potesse toccarmi. Neppure le minacce, in questo tempo, furono bastevoli al Papa, per indurlo ad annullare le nozze tra il Mio uomo e l’Infanta di Spagna.
Poco importa, nel gennaio del 1533 ci sposammo, ugualmente. A dispetto di tutto. Io ero incinta. Enrico era bigamo. E’ presto detto.
In attesa dell’erede che Caterina non aveva saputo mettere al Mondo, quest’ultima venne esiliata. Le si impedì persino di vedere sua figlia. Del resto, Noi avevamo un unico pensiero, rendere valida la nostra Unione. Non mi sarei mai piegata a donare al Re un bastardo.
Le provammo tutte. Si proclamò, persino, il mio consorte, Defensor Fidei. Cosa gli valse? La scomunica.
Per me era diverso… Nel giugno del medesimo anno venni proclamata Regina. Le fontane buttavano vino, quel giorno. Lo ricordo nitidamente. Ma il popolo non si inchinava al mio passaggio. Mi schernivano. Ai loro occhi rappresentavo la cattiva, l’usurpatrice. Ridevano, beffardi, pronunciando la sigla che racchiudeva insieme i nostri nomi: AH! Si prendevano gioco di Noi.
Eravamo potenti. Eppure altrettanto fragili. Presero a considerarmi alla stregua di una Strega. Additavano il neo che possedevo sul collo. Lo consideravano il segno del Demonio. Presero a dire che il mio piede possedeva sei dita. Che servivano, dunque, 250 persone al mio servizio? Adoravo lo sfarzo. E con questo? Che colpa si ha nell’avere buon gusto? Il mio stesso Status me lo imponeva. Richiedeva opulenza. Non facevo che attenermi alle regole. Volevo essere ‘La più felice’, ed essere considerata.
7 settembre 1533. Oh Dio, non lo scorderò mai. Fu in quella data che nacque Elisabeth, la mia primogenita. La mia piccola grande guerriera. Medici e astrologi avevano predetto diversamente. Enrico annullò i festeggiamenti. Lo avevo deluso e, per la prima volta, avevo paura.
A breve, ero di nuovo incinta, ma questo secondo lo persi. Intanto, il rapporto si fece, via via, tempestoso. Mi tradiva. Come tollerarlo? Torturava, coni suoi atteggiamenti, la mia dignità e scatenava la mia collera. Ed era geloso, pure. Della mia intelligenza, dell’acume. Lo disturbava.
E poi proseguiva la ricerca insistente, insaziabile, di un erede. Quanto tempo dovette trascorrere prima che la mia stessa storia avesse a ripetersi? Non chiedetemelo. Andò ad intercettare, questo posso dirvi, le vicende di Jane Seymour. Una ragazzetta insignificante, vi assicuro. Buffo, era la mia dama di compagnia. Provai ancora a rimanere incinta, ma ne seguì l’ennesimo aborto.
Mentre Caterina moriva, il 7 gennaio del 1536, il mio cuore era terrorizzato. Si vociferò di tutto. Che l’avessi avvelenata, che stessimo festeggiando la sua dipartita… fu inutile. Un altro aborto. Ecco quel che ne scaturì. Una pozza di sangue, risposta ad un feto malformato. Ordinai che venisse gettato nel fuoco. Non volevo saperne. Ma quel mio atteggiamento, non so perché, spinse i malevoli ad accusarmi di incesto. Incesto… capite? Io… e la mia carne.
Faceva comodo ad Enrico. Lui non pensava che a Jane. La riempiva di attenzioni, privilegi, regali… proprio come aveva fatto con me. Era impossibile non giungere alla considerazione che, presto, mi avrebbe ripudiata. Fu istituito, a breve, un processo. Mi si fece terra bruciata attorno. Mi si tacciò di tradimento. Tutti negarono, tranne l’unico, che venne, a lungo, torturato. Morirono, decapitati, anche laddove le circostanze dimostravano l’esatto contrario.
Io fui arrestata il 2 maggio 1536. Sono stanca… volete davvero che prosegua?“
Indossava – narra la storia, una camicia da notte. I piedi scalzi. Una dama fece appena a tempo a gettarle addosso un mantello, prima di iniziare il viaggio, lungo il Tamigi.
“Quando mi trovai in aula negai, negai, negai. Mi lamentavo – si bisbigliava – di una pregiudizievole impotenza del Re. Negai ancora. Ma ero già colpevole. “Bruciarla viva? No, mi sembra una crudeltà eccessiva. Ma sia ben chiaro che bisogna tagliarle la testa!”. Eccole, le parole di mio marito. Ennesima prova di forza verso chi non poteva difendersi.
Permisero la presenza, al mio cospetto, di 4 dame. Quattro carceriere, a mio avviso, a rosicchiare quel tanto di verità – la loro verità – che ancora non avevo voluto tirar fuori.
Era il 19 quando, appena prima dell’alba, convocai il mio carceriere: “Ho sentito dire che morirò prima di mezzogiorno. Sono molto dispiaciuta, perché pensavo che a quest’ora sarei già morta.” Non avrei più sofferto. Gli dissi: “Ho sentito dire che il boia è molto bravo e poi, il mio collo, è sottile”. Sorridevo…
Strano a dirsi, ma sentivo che erano loro a temermi. Alle 8, mi condussero al patibolo. Indossavo, quella mattina, una sottoveste cremisi. Sopra, una veste damascata verde scuro, guarnizioni di pelliccia ed un mantello di Ermellino. Era il mio estremo appuntamento. Come dite voi? L’ultimo giro di valzer.
Si può sedurre la morte…? Lasciatemelo credere.
Parlai, un’ultima volta: “E, così, prendo congedo dal Mondo e da tutti voi. E desidero vivamente che tutti voi preghiate per me. Oh Signore, abbi pietà di me! A Dio, raccomando la mia anima”. Fu un istante. Bastò un solo colpo al boia”.
Enrico, quel giorno, era a caccia. Il 30 maggio avrebbe impalmato Jane Seymour. Il terzo sposalizio, a cui ne sarebbero seguiti degli altri.
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