Osteria contemporanea. E non è solo un’idea
Cosa succede nel centro storico di Pisa? Siamo a pochi passi dalla Normale e sulla strada, a far fede al richiamo – indiscusso da queste parti – per la gola, fa capolino un Locale. Ma non uno qualunque. Erbaluigia è sintesi, insieme, di tradizione e volontà di sperimentare, con il tipico atteggiamento gigione, che in zona pare non tradire mai. Interpretano, insomma, la vegetazione del dehors condominiale e il menù ciclostilato, un vago e neppure troppo senso di anticonformismo, che al meglio interpreta il volere di chi ha sortito l’idea.
Tatiana Porciani e Fabio Ponzanelli l’hanno pensata così, la loro ‘osteria contemporanea’. E, addirittura, hanno stilato un decalogo, composto – badate bene – da 9 punti anziché 10, che poi ‘sembra si faccia sul serio’. Vi sono riepilogati il richiamo al passato, la sinergia con gli artigiani, il rifiuto del formalismo.
LE NOVE REGOLE
- Rivendichiamo un mondo a misura d’uomo, definito sui ritmi, i suoi bisogni, il suo lavoro e nel rispetto dell’ecosistema tutto
- Ogni alimento e ogni bevanda è tutto ciò che noi mangeremmo e berremmo
- La nascita di un piatto è un atto concettuale, racconta di una storia personale o collettiva
- La tecnica non deve mai essere autoreferenziale e nei piatti è bandito ogni formalismo
- Ogni preparazione è progettata, svolta o controllata personalmente
- La precedenza va al nostro territorio, la ricerca della materia è volta a premiare le migliori realtà di zona, eticamente e qualitativamente. Il ristoratore è promotore della crescita della sua realtà locale e, al tempo stesso, colui che la racconta e la interpreta
- La materia va rispettata, in quanto frutto del lavoro dell’uomo e risorsa del nostro ecosistema. Da ogni alimento è necessario estrarre quanto più possibile, nel miglior modo
- La tradizione non è statica, si arricchisce e cambia nelle mani delle generazioni che si succedono. È un valore che tramandiamo, scoprendone i significati e aggiungendovi nuovi elementi
- Il nutrimento dell’esperienza ristorativa non è solo relegato al cibo. È uno scambio di esperienze ed impressioni, che creano la nostra convivialità: un’atmosfera fatta da stimoli multisensoriali
Niente referenze alle spalle. I due si sono incontrati ad un corso di cucina in provincia di Lucca, nel 2012. La prima, a quei tempi, aveva infilato nel cassetto la sua laurea in lettere, con specializzazione (guarda caso) in eresie, a favore di una gavetta indispensabile; mentre l’altro, dal canto suo, stava per compiere l’esperienza più importante con Davide Cannavino.
“Come Tatiana, ho fatto manovalanza in locali dai numeri importanti e imparato a dare da mangiare alla gente. Alla Voglia Matta di Voltri ho scoperto qualcosa di diverso: l’imperativo della qualità, la ricerca instancabile della materia prima particolare, anche povera. Davide lavorava veramente di tutto, dal pesce castagna alle boghe, e i suoi piatti raccontavano una storia tutta genovese. La stessa cosa che cerchiamo di fare io e Tatiana: trasmettere sempre qualcosa di nostro, che sia un viaggio, un ricordo o una lettura. La tradizione, ma dinamizzata e attualizzata, con lavorazioni e aromi diversi. Può capitarci di scoprire che nel 1500 c’era un uso particolare dell’aceto e di iniziare a lavorare su un vecchio piatto, per scrostarlo”.
Nasce, dunque, una collaborazione, che prende il via presso la Piccola Lanterna di Pontedera, dove Fabio passa in sala. Poi, nel 2017, la prima Erbaluigia a Casciana Terme. Musa e insieme filo portante, un’aromatica che li segue sin dall’inizio, coerente e dal fare resiliente. Qui si pratica cucina di campagna, protagonista il vegetale. Tuttavia la location, per quando bella, non è ancora quella giusta.
Segue, dunque, il trasferimento a Pisa, nel febbraio 2020, con la voglia, accanto, di mettersi in viaggio verso ricette, magari, dimenticate. Ne è un esempio, il Carcerato: zuppa di pane e frattaglie, nata nel XVI secolo, quando un editto concesse ai galeotti di unire gli scarti dei macelli al rancio. Oppure la Concia, stracotto di musetto di vitello, legato dal collagene naturale.
“Sono partita dall’Artusi. Poi ho iniziato a ricercare i piatti storici, dal Medioevo al Seicento, studiando fonti originali. La cucina mediterranea è un tutt’uno, nasce da quella romana e si sviluppa di pari passo con le entità politiche e gli Stati Nazionali, differenziandosi sempre più. Ma l’ispirazione arriva, per lo più, dalla cucina popolare, più che dalle ricette di Corte” spiega Lei, quasi a voler sottolineare quell’aspetto sempre Bobo, a cui non si intende derogare.
Focus, quindi, sul quinto quarto, più che mai attuale, per ragioni di sostenibilità economica, ambientale, onirica. “La popolazione, nelle città, si cibava di frattaglie, perché c’erano i macelli. Ciò non toglie che uno tra i piatti preferiti di Caterina de’ Medici fosse il Cibreo, per una forma di penetrazione”.
Le radici storiche hanno, con il tempo, trovato manforte nelle emergenze dell’attualità. “Siamo partiti in un momento drammatico, con tante incertezze. Nei menù volevamo una materia prima di eccellenza e le frattaglie non possono arrivare da animali alimentati male o curati con antibiotici. La mia trippa, per esempio, è di una bestia vecchia, per una maggiore morbidezza. Quindi prodotti top, in armonia con il benessere animale e disponibili a prezzi contenuti. La risposta delle persone ci ha indotto a continuare su questa strada“.
Va da sé. E, alle volte, il quinto quarto si traduce, perfino, in sesto quarto di mare, nel senso che finisce abbinato al pesce. “Rientra nella filosofia di Erbaluigia cercare l’animale migliore, senza buttare via niente. Certe frattaglie trovano una nuova vita come condimento salino, magari sotto forma di intingolo, secondo l’uso italiano“.
Dappiù, non si contano le spezie, anch’esse di ascendenza medievale. Le verdure arrivano dall’orto di casa o dal mercato; le carni da una macelleria pistoiese; il pesce da pescatori di Marina; lo zafferano da Croco e Smilace.
Quanto ai piatti, i freddi si confermano, per antonomasia, come eredità del Lockdown. “Ci è sembrato giusto offrire una proposta svincolata dalle abitudini, come succedeva nelle vinerie di una volta“. Quindi, la Testicciola alla pisana, comprensiva di muscolo e addensata dal suo collagene, con condimento di prezzemolo, cappero e cetriolo sottaceto e giardiniera tipo ‘indolciti’ espressi; la Lingua salmistrata, senza salnitro, alla salsa verde; il Paté di milza, con nocciole tostate e gocce di tamarindo.
Poi c’è sua Maestà la Cozza, tra i capostipiti della tavola pisana. “Uso la testa del filetto, conciata con una marinatura a freddo di pimenton e affumicata, poi ridotta in tartare; più le tre salse, secondo tradizione, di prezzemolo, aglio, pomodoro“. Con il tocco sensibile del cumino, in felice liaison sulla conchiglia.
Fra i primi, si fa notare lo Spaghetto vede, vale a dire l’utilizzo di un quinto quarto, ma nobile. Il fegato di rana pescatrice, foie gras del mare, viene qui stufato con cipolle. Quindi, frullato. Lo spaghetto subisce, a seguire, un processo di mantecatura in questa crema, con l’aggiunta di poco aceto, per terminare con una nota tostata di sesamo e gocce di riccio di mare, tanto per esaltarne all’estremo l’accento ittico.
Se si parla di Trippa, la si propone, invece, come una sorta di minestra. Servita in bianco, con cipolla, sedano e porro, per meglio giocare sulle note verdi. Financo il brodo è preparato con i loro gambi e l’aggiunta di poco lemon grass e lime. Il tutto, esaltato dal ginger, che mitiga l’aggressività della frattaglia; più una cascata di Pioppini. E – va detto – sono presenti tutti i tagli: cuffia, centopelli, esofago, lampredotto, per moltiplicare gusti e consistenze.
Il Cuore di vitello viene marinato per una settimana in acqua, zucchero, sale e spezie, per ingentilirne la ferrosità. Passato sulla griglia romagnola, lo si serve con un fondo bruno montato al grasso del cuore e un’insalata fredda di cipolle sotto la cenere, speziate con cannella, zenzero, zafferano e pepe, variazione del classico curry; senza rinunciare ad una grattata di cuore di tonno, messo sotto sale ed essiccato.
La Coratella, infine, deriva dalla Tomacella, altro piatto storico. Si tratta, in questo caso, di un trito di interiora nella rete di maiale, composto di fegato, animella, milza e cuore, condito con cipolla, prezzemolo, spezie, aromi e poco brandy, cotto infine sulla brace. Né mancano, ad accompagnamento, melanzane alla brace in crema e pomodori confit.
E arriviamo ai dessert, ingegnosi. Fico, per dirne uno, si ispira alla sensazione del Mediterraneo a settembre. “La base è di noci, rosmarino, poco sale di Maldon e fichi secchi ammollati nel brandy, legati naturalmente. Poi, fichi freschi leggermente asciugati e osmotizzati nell’aceto di Jerez e una pallina di gelato al fiordilatte aromatizzato al palo santo per la nota di incenso, che introduce gli unici zuccheri aggiunti“.
La carta dei vini è curata direttamente da Fabio e conta 140 etichette. “Siamo partiti dall’ortodossia del naturale. Po ci siamo aperti allo Champagne e ad altre filosofie. Sulle carni fredde propongo un Drankante di Maestà della Formica, prodotto quasi di zona che lambruscheggia, per un abbinamento ispirato alla tradizione. Sullo spaghetto Le Facteur su’l’ vélo, chenin di Vouvray dalla discreta dolcezza, che lega con la burrosità del piatto”.
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