Grass Fed: quella carne… più carne delle altre
Non si asciuga; nè… si rattrappisce, come fa, solitamente, la carne, in fase di cottura. La lombata grass-fed, insomma, rappresenta una sorta di rivoluzione, anche se non proprio una scoperta. Già, ma di cosa si tratta, per l’esattezza?
Il termine sta a significare, letteralmente, nutrito ad erba e, giacché di animali da allevamento si parla, sta a significare che quando il vitello nasce, assume il latte direttamente dalla mamma. Non solo, l’intera mandria vive all’aperto, pascolando e nutrendosi in maniera ‘sana’.
Dunque, in Italia la conosciamo, ma da non più di 20 anni, con un’intensità crescente negli ultimi 5-6, alternativa – quest’ultima – alla produzione che avviene tramite allevamenti intensivi.
“È un modo di allevare – quello in esame – che non è tipico nostro. Si è sviluppato nell’Europa del Nord e, poi, l’abbiamo importato qui. Gli animali vivono liberi, allo stato brado, come si faceva in passato“, chiariscono gli esperti.
Certo, si tratta di una produzione di nicchia, limitata, decisamente non in grado di soddisfare la domanda completa del mercato. Del resto, non è questo il suo scopo.
È, soprattutto, una questione di spazio: “Per allevare così, serve un ettaro di terreno ogni 2 bovini“, se non addirittura “un ettaro, per ogni capo adulto, oppure un ettaro per 3 vitelli“. E, dal momento che un ettaro equivale a 10mila metri quadrati, i calcoli su quanto ne occorre, di spazio, si fanno facilmente. Più complicati sono i calcoli su quanti siano gli animali allevati in questo modo. Nonostante non siano presenti stime ufficiali, esistono “oltre 1000 bovini e circa 1000 ovini nutriti ad erba, concentrati, in particolare, nelle zone di Lombardia e Piemonte“, oltre che in Liguria, nel territorio spezzino della val di Vara.
Volendo contestualizzare, nel Bel Pese ci sono 9 milioni di bovini, divisi in circa 100 mila allevamenti intensivi. Quelli, invece, distensivi (catalogati, cioè, come bio) sono più o meno 80 mila e raccolgono circa mezzo milione di bovini. Questo si intende, quando si parla di produzione di nicchia.
Ebbene, le cose potrebbero presto cambiare. Nel 2016, infatti, l’Aiag (Associazione Italiana Alimenti grass-fed) ha stabilito un personale disciplinare, per chiarire cosa può essere definito grass-fed e cosa no e di cui, sebbene al momento comprenda una ventina di aziende agricole (altre 10, circa, sono in attesa di approvazione), mira, ora, a nuove vette. Solo di recente, in effetti, l’Associazione ha vinto un bando da 9 milioni di euro, messo a disposizione dall’Ue.
Il pogetto Pathways – questo è il nome – è capeggiato dall’Università svedese di Scienze agrarie e prevede, nei prossimi 5 anni, il coordinamento e il controllo del metodo in questione, per fornire supporto e sviluppo alla piccola filiera.
Le razze da preferire? Non essendo tutte adatte, vanno per la maggiore quelle originarie dell’Europa settentrionale. Tra le più diffuse: Angus ed Hereford (entrambe arrivano dalla Scozia), Sashi (Danimarca e Finlandia) e Highland o Highlander, anch’essa tipica della Scozia. Sono indicate, tuttavia, anche la Bruna Alpina e l’Olandese (caratteristiche della Lombardia), la cosiddetta Bianca e Rossa (presente, in buona parte, in Trentino), la Piemontese e il Vitellone Bianco dell’Appennino. Meno a d’uopo, al contrario, la Chianina.
Ancora, i bovini grass-fed vivono, mediamente, più degli altri. “Le mucche da latte arrivano anche a 7-8 anni; mentre i vitelli da carne, di solito, si fermano intorno ai 18 mesi, prima che diventino tori“. E, nel discorso, si può procedere anche oltre: “Ci hanno abituati ad avere fretta, a produrre il cibo come in una catena di montaggio, ma dobbiamo smetterla. Negli allevamenti intensivi, i vitelli vengono macellati dopo 9-12 mesi, ma un animale davvero grass-fed deve vivere almeno 2-3 anni, per acquisire tutte le caratteristiche che gli si riconoscono“. Il segreto risiede nell’alimentazione: “Negli allevamenti, il 70% del foraggio è composto da cereali e ciò, alla lunga, pesa sulla qualità stessa della carne“. Cosa che non accade, agendo diversamente.
Merito, probabilmente, l’alta qualità di cui sopra, del fatto che “I bovini che stanno al chiuso, nelle stalle, hanno sempre acqua a disposizione e bevono, ogni volta che vogliono. In più, fanno poco movimento“. Tradotto: negli animali d’allevamento, i liquidi sono in percentuale più alta, mentre quelli che stanno al pascolo fanno più movimento, sono più in forma e, anche, bevono meno. Di conseguenza, in cottura, rilasciano meno acqua.
Al di là, poi, del sapore, inevitabilmente migliore, la carne degli animali nutriti ad erba è, in generale, più ricca di Omega 3, ferro e altri minerali; più magra e più soda e con meno grassi.
La soluzione perfetta? Ni. Costa, il che non è poco. A seconda del taglio, dai 20 ai 50 euro al kg. In seconda istanza, non è facilissima da preparare. “Ha un gusto particolare che può non piacere a tutti, ma è perfetta per brodi e spezzatini“. Le difficoltà subentrano, nel caso si intenda cucinare una bistecca o prepararla alla brace. Tuttavia… dotati degli “strumenti giusti, magari con una padella di ghisa o uno di quei grossi barbecue americani, tenuti a temperature molto elevate, scottata dai due lati e poi finita nel burro, verrà perfetta“. Insomma, come spesso accade, sta tutto nella pratica.
Ci soffermiamo, infine, ad analizzare un ulteriore vantaggio, ossia l’impatto sull’ambiente, che si riduce enormemente. C’è minore consumo di suolo e di acqua e una minore immissione di anidride carbonica nell’atmosfera. Talmente tanto che, in futuro, l’intenzione è di permettere alle aziende che la producono di vendere crediti verdi alle altre. Una forma, se vogliamo, di compensazione.
Di più: il brucare degli animali ha conseguenze benefiche sui terreni destinati al pascolo, che non vengono né arati né concimati e restano comunque fertili. Più fertili, anzi. È il cosiddetto regenerative grazing, tra le tecnologie con cui l’agricoltura riesce a tenersi al passo con i tempi. E pazienza se è una tecnica che guarda al passato. Se funziona, forse è meglio non dimenticarla…
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