Rebibbia: altro che carcere. Qui si disegna la storia della moda

Rebibbia: altro che carcere. Qui si disegna la storia della moda

Sono sarti. Sono modelli. Prima ancora, sono carcerati e, quel che più conta, le proprie competenze le hanno assunte dietro le sbarre. Nulla che abbia a che fare con l’essere improvvisati, sia chiaro. Qui il mestiere – proprio come di faceva un tempo – si impara un giorno dopo l’altro, con l’applicazione seria e il supporto di professionisti, capaci di trasmettere, al di là delle nozioni, conoscenze di vecchia data. Artigiani, loro, se non addirittura artisti, volenterosi di diffondere competenze che, altrimenti, rischiano di andare perdute.

Dunque, Accademia dei Sartori esporta i suoi corsi fin dietro porte destinate, per taluni, a rimanere chiuse. Serrate, non per tutti, ovvio e, allora, c’è chi punta a ricostruirsi una storia e un possibile futuro. C’è chi, semplicemente, guarda all’oggi. Prova a darsi motivazioni, tenta di non lasciarsi scivolare in un’inedia che, di per sé, non presenta nulla di buono.

Così sfilano – occasione creata appositamente – gilet, camicie, pantaloni. Capi sartoriali, realizzati nel cortile dell’Area Verde dell’Istituto penitenziario di Rebibbia Nuovo Complesso. Ad assistere, orgoglioso, speranzoso, un parterre composto, per buona parte, da familiari ed è possibile – nell’immediato – cogliere i primi frutti della feconda attività. Chi ce l’ha fatta lavora già in atelier, dopo aver scontato la pena.

Il progetto si chiama Made in Rebibbia, risultato di un’idea partorita nel 2017 e perorata con la stessa dignità e scrupolosità che si riserva alla produzione. Sono tanti, da queste parti, i detenuti: 1560 persone, che tutte le mattine respirano la stessa aria, si affacciano alle medesime finestre. Sono gli stessi occhi che si incontrano, con la differenza che, in questo caso, vale la politica del fare; l’unica, in grado di rendere il tempo un po’ meno dilatato.

Le 36 mise rappresentano il risultato di un anno di corso di alta sartoria maschile. Otto mesi – per esser precisi – 650 ore, in tutto, che ad oggi equivalgono all’applicazione di giovani e meno giovani, che hanno imparato a tagliare e cucire. E a sfilare, indossando quanto hanno realizzato. Gli occhi brillano di fronte agli applausi, manifesta fierezza di un percorso niente affatto scontato.

Diverse le personalità presenti, con tanto di Sponsor.

Questo progetto va oltre l’obiettivo dell’Accademia, che è rigenerare la sartoria“, spiega il presidente, il maestro Gaetano Aloisio. “E’ l’opportunità per iniziare una vita nuova, regalare un sogno anche chi è stato meno fortunato. Uno studio recente dell’Università Bocconi afferma che l’84% dei detenuti che frequentano corsi e tirocini, una volta in libertà, viene assunto con un contratto regolare“. Ecco, “ci piacerebbe allargare questa iniziativa…

Segno che non si tratta di sole parole, Manuel Zumpano, self made man diplomato proprio in istituto, dove ha seguito anche il corso di cucito. Ora che è libero e lavora. “Questa è un’iniziativa davvero potente“, si lascia scappare, quasi fosse il primo, Lui, ancora incredulo.

Del resto, è oramai dimostrato: il contatto con la bellezza riesce cambiare chi vi si accosta.
Chiosa, a chiusura della sfilata, Alessia Rampazzi, direttore del carcere: “Non importa quello che hanno fatto ieri, ma quello che faranno domani“.

Domani, che suona stranamente di ‘possibile’; è evocativo di costruzione e speranza e, socchiudendo appena gli occhi, sembra quasi di toccarlo. Anzi, di poterselo cucire su misura…

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