“Eliminare i disabili è un bene per la Nazione”. Quando la lucida follia si dipinge strage
Genocidio, scempio, carneficina… potremmo giocare con le parole, nel definire quanto accaduto il 26 luglio di qualche anno fa – era il 2016 – nella piccola realtà cittadina di Sagamihara, nei paraggi di Tokio (Giappone).
Satoshi Uematsu aveva 26 anni. E’ lui il protagonista della nostra storia. Un ragazzo, che un giorno ha aperto la porta della propria abitazione e si è diretto presso quello che, per tre anni, aveva rappresentato il posto di lavoro, presso una casa di cura.
Tsukui Yamayuri En, o Tsukui Lily Garden, è una nota struttura residenziale, circondata da una proprietà di quasi 8 acri di bosco. Include una piscina, una palestra e un centro medico. All’epoca, ospitava circa 150 pazienti, dai 19 ai 75 anni, di cui molti con disabilità, mentali e fisiche. Alcuni – banale dirlo – costretti a letto.
Collaborazione, quella di Satoshi, che si era interrotta nel mese di febbraio dell’anno in questione.
L’angelo del male
“E’ meglio che le persone disabili scompaiano“. Si traduce, con una frase lapidaria, quanto accaduto subito dopo. Un gesto folle? Pare che, nelle intenzioni del giovane, fosse la volontà di liberare le famiglie e, laddove possibile, il mondo, dal peso dei pazienti disabili.
Neppure qualche mese prima, aveva cercato di consegnare, ad un parlamentare, una missiva, in cui sosteneva il ricorso all’eutanasia per le persone inferme, qualora anche i tutori si fossero trovati d’accordo. Aveva ribadito il medesimo pensiero ai colleghi, sostenendo il vessillo della liberazione, per quanti costretti a prendersi cura di poveri derelitti inutili. Addirittura, nella lettera, arrivava a proporsi nella figura di ‘angelo sterminatore’. Se solo gli fosse stato consentito, era già pronto ad uccidere 470 persone.
Un’ecatombe da brivido
Invece i morti – per fortuna – sono stati molti meno. 19, per l’appunto. Troppo tardi – erano le 2.30 del mattino – ci si è accorti del piano in atto. All’arrivo della polizia Satoshi si era già dileguato, dopo essere stato ripreso dalle telecamere di sicurezza.
10 donne e 9 uomini, tra i 19 e i 70 anni, erano stati sterminati a sangue freddo. Oltre allo stuolo di feriti, ben 26, in situazioni decisamente gravi.
Una missione, terminata con un’ammissione di colpa da parte dello stesso Satoshi Uematsu e relativa consegna nelle mani della Polizia, con tanto di armi al seguito. La borsa del 26enne traboccava di coltelli, che parlavano di quanto accaduto.
Le ‘buone’ intenzioni
Ma dove rintracciare le radici di tanta atrocità? Va detto che, in Giappone, avere in casa un parente disabile rappresenta uno stigma. Per questo, si preferisce, sovente, affidarli a strutture assistenziali idonee, che ne provvedano all’assistenza.
Si tratta – per dirla tutta – di una faccenda scomoda. Lasciata spesso in sordina.
Ecco, a muovere Satoshi sarebbe stato “un forte sentimento verso i disabili“. Non avendo posto nel mondo – secondo un ragionamento assurdo, ma pur sempre logico – sarebbero dovuti “scomparire“, come riporta The Mirror.
Il ragazzo era intenzionato a fare qualcosa di ‘buono’; nel modo più sbagliato. Così, quel maledetto giorno, aveva dato corpo al suo terribile piano. Si era introdotto nella struttura rompendo un vetro, per poi rubare le chiavi ad un membro dello staff. Uno dopo l’altro, ha immobilizzato i dipendenti in servizio, in tutto 9. Una volta nelle stanze dei degenti, ha tagliato loro la gola. Metodico, preciso, puntuale. La perfetta immagine della mannaia che tutto porta via. Persino le sofferenze. Espiazione e catarsi. Morte e resurrezione.
Una piaga di cui ci si vergogna
Di fatto, il terribile omicidio ha portato alla luce la considerazione che, in Giappone, si riserva alle persone disabili. Il dramma si fa ancora più evidente se si pensa che, nonostante l’enormità dell’evento, i nomi e le foto delle vittime non sono stati resi noti, su richiesta delle stesse famiglie, ancora sottomesse al pregiudizio.
Il ‘nostro’ è stato accusato di 19 omicidi, 24 tentati omicidi e reclusione illegale, oltre al possesso di armi. Al processo, iniziato in gennaio, hanno sgomitato, pur di assistere, oltre 2000 spettatori. Solo 26 i posti disponibili, nella galleria pubblica. E se gli avvocati hanno sostenuto la tesi dell’incapacità di intendere e volere – dettata anche dell’uso di marijuana – per Uematsu non c’è stato scampo. Colpevole.
Ora attende solo di morire, anche lui, tramite impiccagione.
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