Giovanna: quella donna che ancora vive qui…

Giovanna: quella donna che ancora vive qui…

Cosa descrive l’indole di un essere umano? Cosa dice veramente chi siamo? I comportamenti? O non, piuttosto, le ragioni che si nascondono dietro…

Giovanna di Castiglia

Mi chiamo Giovanna, e questa è la mia storia. E no, non intendo sedurvi, né condizionarvi per ottenere, al termine di questa mia cronaca, un parere amico. Mi attengo, semplicemente, ai fatti, così che possiate conoscere e giudicare, se lo riterrete opportuno e secondo i vostri criteri, come meglio ritenete.

Non vi biasimo, né lo farò al termine del racconto. E’ una promessa. Solo, sento forte l’istanza di illustrarvi come sono andate le cose. Di dire anche io la mia… Il resto sarà nella discrezione personale, atterrà a ciò che vi comanda il cuore. Non vi farò appello. Miro alla verità, niente altro.

Ma veniamo a noi: Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona. Eccoli, mio padre e mia madre, che mi generò in quel lontano 1479. Potrei già fermarmi. Poggiare, a mio credito, il piglio controverso di entrambe le figure. Castiglia ed Aragona avevano poca dimestichezza con la parola ‘sentimento’. Il tempo di generami forse, me e i miei fratelli, quel tanto utile per assicurarsi una discendenza. Ma i due Regni erano separati. Ognuno esercitava il legittimo potere sul proprio territorio. Per il resto, estranei.

Pensate, ci volle l’arrivo dei Borboni affinché le due Regioni diventassero un tutt’uno.

La premessa, dunque, conteneva già in sé il sapore della sconfitta. Come si può coltivare attaccamento laddove vige, sovrana, l’indifferenza? Alla morte dell’uno/a, il/la consorte non avrebbe ereditato nulla. Separazione dei beni ante-litteram. Bisogno di aggiungere altro?

Io ero terza in successione, venuta al mondo dopo Giovanni – ‘Principe delle Asturie’ – l’erede al trono, Lui sì, maschio. Poi c’era Isabella, più grande di me e le piccoline: Maria e Caterina, destinata, quest’ultima, prima a riscaldare le notti di Arturo, Principe di Galles; in seguito, a venire impalmata da Enrico VIII, con la sorte che tutti voi, ormai, conoscete.

Niente trono, pertanto, per quel mi riguardava. Nessun potere, meno responsabilità. Che sollievo. E invece no. Non è come credete. Venni istruita con disciplina, secondo i progetti che mi si erano costruiti addosso.

Me… non vi ho detto nulla al riguardo, è vero. Ma non vorrei correre nell’errore di condizionarvi. Non cerco commiserazione. Sappiate, tuttavia, che sono cresciuta in un periodo tanto simile a quello in cui siete incappati proprio ora. Fatto di restrizioni, di divieti… buio.

Credo di aver avuto un cuore ribelle. Di me si diceva fossi intelligente, colta… bella. Quale il più grave dei crimini, non saprei dirvi. E questa mia indole illumintata poco combaciava con i dettami cattolici. Ero scettica quel tanto che bastava per subire, da parte di mia madre, indottrinata al fanatismo religioso, feroci punizioni. Cristoforo Colombo scopriva le Americhe e noi lì, topi in gabbia, arsi vivi con l’accusa ingannevole di un’eresia che non era mai esistita.

Non ero ancora donna, eppure già in odore di colpa, al pari degli Ebrei e dei ‘Mori’. Ero diversa. Strana. Amorale.

Filippo e Giovanna

A 16 anni venni promessa in matrimonio al figlio di Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero. Filippo il Bello mi attendeva all’altare, mentre Giovanni delle Asturie sposava Margherita, sorella del mio futuro sposo. Oh, non fantasticate su nozze da favola. La cerimonia avvenne per procura, a Valladolid.

Lo conobbi solo poi, nel 1496. Lo vidi e me ne innamorai perdutamente. Ciò che scatenava in me era un mix perfetto di passione, sensualità, attrazione… anima nell’anima, non intendevo essere solo moglie. Io volevo di più. Amante, puttana, Signora… Tutto. Io volevo Lui. Scandalosamente, lui. E così fu, almeno per i primi anni. Nel giro di poco, dal 1498 al 1507, nacquero 6 figli.

Negli stessi anni, salivo al trono. Come possibile? Vi starete forse chiedendo. Presto detto. Prima Giovanni, privo di successione, poi mia sorella Isabella e suo figlio Manuel, morirono tutti. Rimanevo io, ufficialmente nominata – dal 1502 – Principessa delle Asturie. Un anno dopo partorivo Ferdinando. Avrei voluto seguire Filippo. Tornare, al suo fianco, nelle Fiandre. Ma la storia, sapete bene… mia madre, non me lo permise.

Fu allora che iniziò il calvario. Le mie crisi di nervi venivano etichettate come follia. Io lo chiamavo soltanto amore. Un amore disperato, mai sazio, per quell’uomo che, al mio ritorno, trovai, invece e me sventurata, tra le braccia di un’altra. Come sono fragili gli esseri umani. Si sgretolano con una carezza… Allora non lo sapevo. Non potevo neppure immaginarlo. Ero in preda ad una rabbia cieca.

Quando anche mia madre se ne andò e divenni ufficialmente Regina di Castiglia, fu la volta di mio padre. Ferdinando nutriva smanie di occupare anche lo spazio che non gli apparteneva. Ambiva al mio posto. Se ne impadroniva, in mia assenza, ma so per certo che avrebbe voluto defraudarmene completamente.

Astuto, faceva in modo, allora, che le voci sulla mia incapacità, sulla ‘malattia’, serpeggiassero veloci. Firmava persino i documenti timbrandoli ‘El Rey‘. Cosa c’è di più vile di un uomo contro un uomo, ambedue disposti a giocare con il cuore di una donna, pur di vincere la Partita? Così fecero, Ferdinando e Filippo. Ognuno coniava le proprie monete a mio e a suo nome. Ciascuno convinto di potermi adoperare a proprio capriccio. Si incontrarono, al fine, a mia insaputa, per definire la successione. Ferdinando accondiscese a lasciare la Castiglia ai suoi ‘amati figli’.

Perdonatemi se rido, adesso. Il fatto è che, insieme, fu firmato, un documento, anche, in cu Io, per via della mia ‘infermità ed instabilità mentale‘, non ero ritenuta in grado di governare.

Ho il fiele in bocca, a ripensarci.

Riepilogando, che non intendo confondervi: Ferdinando si ritirò in Aragona, lasciando Filippo a governare la Castiglia. Nel luglio del 1506 fummo incoronati; mentre Carlo, nostro figlio, divenne il nuovo principe delle Asturie. Durò poco, troppo poco. Tempo qualche mese e Filippo mi lasciò, per sempre. Non una donna, no. Se l’è portato via – si dice – una febbre tifoide. Mi ossessiona ancora il pensiero di Lui, così, inerme… sospetto un omicidio. Non riesco a togliermelo, tuttora, dalla testa.

Giovanna veglia la salma del marito. Francisco Pradilla Ortiz

Incinta della mia ultima creatura, intrapresi il viaggio verso Burgos, dove Filippo desiderava essere sepolto. 700 km, da percorrere con il corteo funebre. Cos’altro deve fare una femmina? Ma la pena non era ancora terminata. Regnavo o, quanto meno, tentavo, finché la peste, insieme ad una pesante carestia, misero in ginocchio la Castiglia.

Mio padre sembrava non aspettare altro. Ne approfittò per ‘darmi una mano‘. Mi rassicurò con queste esatte parole. La fortuna aiuta gli audaci e, forse, fortunato lo era davvero, perché al suo arrivo l’epidemia si arrestò. Gli cedetti il Governo. Annullata, sconfitta, nell’animo prima ancora che nelle forze. Questo mio stato mi condusse ad una prostrazione tale che fu facile, quasi naturale, spazzarmi via. Ero Regina, sì, ma solo d’etichetta.

Fino al giorno in cui venni fatta rinchiudere nel Real Monasterio de Santa Clara – quello che allora era il Palazzo Reale – defraudata dei servi fedeli, sostituiti dai seguaci di colui che mi aveva messa al mondo. Poi, nel 1516, Lui morì. Finalmente. Lo so, non dovrei dirlo ma è coì. Fu una liberazione per me. Una catarsi. Rimanevamo io e Carlo, il mio sangue, la mia progenie.

Ma Carlo viveva troppo lontano. Era nelle Fiandre. E, in attesa del suo ritorno, il figlio illegittimo di Ferdinando, l’arcivescovo Alonzo de Aragon, ne assunse le veci. In Castiglia, d’altra parte, con me fuori dai giochi, ci pensò l’arcivescovo Cisneros.

Carlo tornò solo nel 1517 e regnò. Io restavo confinata a Tordesillas, in isolamento perpetuo.

Questa condizione non fece altro che alimentare in me il terrore di venire avvelenata. Come riuscire anche solo a mangiare in questo stato di cose? Non dormivo più. Non sopportavo più di cambiarmi, di lavarmi… sotto suggerimento di mio figlio, decisi di non vedere neppure più nessuno. Per non turbarmi ulteriormente… Certo, nevvero?

Maltrattata, persino da chi avrebbe dovuto servirmi, incontravo, a mala pena, le mie due figlie femmine, ogni tanto…

Il corpo, ormai, aveva rinunciato a me. La mente ancora no, lottava. Ma potevo vederlo unicamente io.

Tomba di Filippo e Giovanna – Cappella Reale di Granada

Mi sono spenta a 75 anni, nel 1555, dopo ben 46 primavere di solitudine. Alla Cappella Reale di Granada ci sono arrivata ficcata in una bara. Se fate attenzione, le statue che ad oggi raffigurano me e mio marito guardano in direzioni opposte.

Pazza. Così sono stata appellata per molti anni, secondo la comodità di chi mi era attorno.

Sintomaticamente depressa, questo sì. Mi hanno definita bipolare, isterica, schizofrenica, a filo diretto con mia nonna. Io, in verità, ritengo di aver peccato del più turpe dei mali. Ero innamorata. Gelosa, irriducibilmente, di chi mi ha ripetutamente tradita. Affamata d’amore, ingorda, per riempire quel pozzo senza fondo che era talmente vuoto da non potersi mai colmare.

Dicono che abbia vacillato. Lo nego. Quel che non ho fatto è perché mi è stato artificiosamente impedito. Rivendico la mia stabilità. La mia lucidità, fintanto nel governare.

Giovanna la pazza: quella che, in viaggio per seppellirne le spoglie, apriva la bara del marito per osservarne la salma. Lo amavo.. Cosa c’è di folle in questo… di sbagliato? E’ ingiusto. Chi di voi non ha mai perso la testa, alzi la mano. Rivedrò tutte le mie posizioni.

Ma, vi prego, ascoltatemi. Mi sono protratta a lungo – ne sono cosciente – ma volevo non nascondervi nulla. Intendevo portarvi con me, giorno dopo giorno. Rivivere quanto successo per poter tratte, voi, le vostre conclusioni.

Eccomi. Sono Juana la Loca. Adesso a voi sentenziare. Mi rimetto nelle vostre mani. Lo faccio, consapevole che potreste distruggermi ancora. Che la mia sofferenza, il tormento, potrebbe non trovare mai pace. E forse è questa la mia più grande forma di in-sanità. L’ostinazione nell’illudermi, al fine, di poter rivendicare chi sono, con il beneficio di chi ascolta e punta gli occhi nei miei.

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