Eloise: confessioni di una ‘masca’
Eloise. E’ questo il nome scelto per me. Mi sta inciso addosso come un marchio, da quando mi hanno messa al mondo. Fossi nata in Germania, sarei stata Helewidis, auspicio di una salute che superasse le barriere del tempo. Ma l’etimologia che in me conservo è di derivazione francese. Heloise significa combattente. E questo sono: Luisa. Il mio onomastico si festeggia l’11 di febbraio, ma – me ne rendo conto – per voi poco importa.
Può interessarvi, però, la mia storia. Non per se stessa. Non possiedo nulla che non possa regalarvi qualsiasi altra donna. Ma perché questo mio racconto è emblematico di un tempo in cui la mia condizione di femmina era malvista, mal generata. Vorrei poteste comprendere… non è facile raccontarvi di me, così, spogliarmi da tutto, per dettarvi capitoli di una vita che ancora, a stento, riesco a comprendere.
Ecco, per capire chi sono provate a consultare l’Editto di Rotari del 643 d.C. Forse in questo modo vi resterà più facile. Dove sono nata, poco conta. Sappiate, tuttavia, che nelle zone del Piemonte quelle come me le etichettavano Masche. Elegantemente, potrei dirvi che il termine sta a significare Spirito soprannaturale, Anima di defunto… sfuggendo alla responsabilità di essere esattamente ciò che sono. Non sono fatta così. Guardo in faccia la verità, che mi riesce più facile. Mi denudo, lor Signori che ascoltate: sono una Strega.
Oh, non perdetevi in congetture senza senso… non immaginate scope volanti, né cappelli a punta. “Aj sun le masche!“, partorita dal folclore mai spento di ambienti rurali e montanari. Sapete cosa significhi, in gergo, mascare? Ebbene, sta ad indicare il borbottio degli incantesimi, pronunciati in un soffio, sospesi tra la parola ed il silenzio. Segrete combinazioni di vocaboli, di per sé innocue… anche il mio sguardo lo era, allora. Vivo, infuocato dalla passionalità di sentimenti irrequieti, pagani; alla continua ricerca di risposte. Circondata dall’eco di una tradizione – quella celtica e druidica – che avrebbe potuto condurmi solo in una direzione.
Vorrei descrivervi… trovare i termini adeguati per allontanare credulerie sciocche e falsi miti. Non sono vecchia, né gobba. Non ho rughe sul viso. Non ancora. Il mio volto è candido. Gli occhi screziati di verde sanno ancora bene come rapire quelli di un uomo… e sì, lo ammetto, vivo sola. Chiusa in questa mia baita, lontana da tutti – affinché non mi riconoscano – ma vicina quel tanto che basta da poterne ancora percepire l’odore. Li distinguo, uno ad uno. Li ho conosciuti mille e mille volte, gli essere umani. Fragili creature, loro. Io, intenta a mascherarmi. Miscelata in quella vita sociale che ritengono tanto importante… Gli serve per sentirsi grandi. Per glorificare le loro piccole figure. Gli errori spesso, ne vanificano i presupposti, eppure amano sentirsi così…
Sin da subito, per poterli osservare più nel dettaglio, ho imparato a trasformarmi. Assumevo – lo faccio ancora – sembianze di animali. Cani, gatti… quel che capita. Pare che siano ben voluti.
Sono potente, sia chiaro, ma non immune alle ferite. Non ho mai imparato a salvaguardarmi, se non come vi ho pocanzi illustrato. Sciocca io, che li soccorro, questi mucchietti di polvere dotati di corteccia celebrale e li accudisco. Scandaloso vizio, il prendermi cura di loro, perché sanno essere crudeli. Irriconoscenti. Così, quando ritorno alla mia pelle, conservo intatte le ferite del tempo trascorso sotto l’influenza del sortilegio. Detto ciò, non conosco la vecchiaia, è vero. Ma non sono immortale. Scordatevi delle dicerie. Abortite i luoghi comuni. Morirò, forse presto. Ma ho bisogno, prima, di un erede.
Lo cerco ogni notte, all’imbrunire. La mia luce, del resto, la rintraccio nel buio.
Dicono di noi che scateniamo temporali e tempeste, che condizioniamo il clima. Non comprendono che il dolore assume, a volte, facce inaspettate. L’unico potere è quello delle lacrime, così intense da richiedere il sostegno del cielo per porter scorrere via. Piangiamo, disperate come lo sa essere solo la percezione continua e cosciente di quel che accade intorno a noi.
Di me hanno fatto scempio e troppi pianti ho versato. Strano a dirsi, nonostante la loro irriducibile ferocia, mai mi sono sentita contraria. Mai avversa. Preparo decotti, lavoro le erbe, da sempre. Lenisco, in tal maniera, le sofferenze dei viandanti. Formule, apprese dal Libro del Comando. Si sussurra che sia la nostra Bibbia. Già, perché io leggo. Eretica, blasfema. Sono colta, come le migliori e più audaci Cortigiane. Conosco, ma so destreggiarmi anche tra bastoni, mestoli e gomitoli di lana. Diciamo che l’ho appreso per gioco, divertita dai racconti che sentivo in giro.
Un brusio instancabile che mi additava come la ‘starna’… per le donne ero peccato. Per gli uomini ero peccato, pure, ma con intenzioni diverse. Facevo comodo ad entrambi, ma ero troppo acerba per rendermene conto.
Perdonate, cari lettori, se i pensieri sono slegati. A malapena convergono, in questo mio percorso a ritroso. E’ che sarebbero infiniti gli oggetti del mio discorrere e vorrei parlarvi a porte spalancate.
Sapete cosa incute paura alla gente? Ciò che non conoscono. Allora giù a consigliarsi. “Non lasciate i vestiti dei vostri piccoli fuori ad asciugare“, era il monito. Altrimenti sarebbero cresciuti guerci e storpi, figli un maleficio che non li avrebbe perdonati. Cosa c’è di più tremendo delle dicerie? Ti si poggiano sopra. Poi, a poco a poco, ti scivolano dentro, e ti divorano.
E’ andata così. Nel Medioevo la mal sopportazione si è spinta al punto tale da sentire l’impulso inarrestabile di bruciarci. Arse vive, come le più pericolose fiere. Bestie da macello, domate da i padri di un’Inquisizione tracotante e perciò, ancor più maldestra. Rivara, Levone, Pollenzo, la Val Sesia, la Val Soana… qui ci hanno giustiziate, fin sul logorarsi dell’800.
Ridevano, fintanto che le carni prendevano fuoco. Non immaginavano che sappiamo rinascere… ingenui. Quando lo hanno scoperto hanno preso l’abitudine di impiccarci, prima. Per ucciderci due volte, in modo tale che l’anima non riuscisse a sottrarsi alle leggi del corpo. Ci hanno picchiate, barbaramente. Hanno sparso le nostre ceneri ovunque, purché non trovassimo pace. Ignari del fatto che lì, proprio in quella Terra che loro calpestano, risiede la nostra pace. Residenti del mondo e di nessun posto. Zingare per indole. Vagabonde ancelle di ciò che, loro, ritenevano e ritengono il Demonio.
Per assunto, nella cultura agricola piemontese si evita di stringere tuttora la mano ad una donna anziana, che si incontri da sola. Per timore che, in fin di vita, possa infettare dei propri poteri il malcapitato di turno. Ci temono. Ci disprezzano. Raccontano di tutto su di noi. Se lo passano di bocca in bocca, come fosse cibo masticato, pur di tenerci distanti.
Noi, al contrario, siamo ancora là. Superstiti di una conoscenza antica. Siamo nascoste nei boschi, nei fienili abbandonati, nelle casupole di Langa. Ci prendiamo beffa delle loro espressioni buffe, delle menti, inutilmente complicate. Li osserviamo, in taluni casi persino con tenerezza… non approfittando del fatto che potremmo dominarli.
Siamo così. Bellissime e disperate…
Sono Eloise. Sono una Strega. Sto morendo e sono in attesa delle mia prossima esistenza.
LEGGI ANCHE: Giovanna: quella donna che ancora vive qui…
LEGGI ANCHE: Il volto inedito di Anna Bolena. Per Channel 5 diventa ‘nera’
1 commento