Lo scandalo dei College approda anche da noi e ce lo racconta Netflix
Meritocrazia? Qui non sta di casa. Sai che novità! Commenterete. Che, quando si è ‘figli di papà’ tutte le strade ti vengono aperte, a dispetto di predisposizione e talento. Il tema, lo sappiamo, è già trito e ritrito, ma Netflix pensa – come dire – a rinverdirlo, grazie ad un docu-film (1 ora e 40 minuti la durata) che negli Usa ha già sbancato e che adesso fa capolino anche da noi.
Operazione Varsity Blues, questo il titolo, rappresenta la denuncia aperta delle vessazioni e dei traffichi – ovviamente loschi – che si nascondono dietro l’accettazione, da parte degli Istituti più prestigiosi, dei rampanti rampolli di famiglie bene, che riescono a farsi ammettere senza meriti. Non tramite borse di studio, né voti impeccabili o eventuali test di ammissione, superati.
Qui si procede – insomma – a suon di raccomandazioni. Piaccia o meno. Storia vecchia… e chi ne dubita.
La questione, già timidamente affrontata nel 1999 in una pellicola, comparabile per nome, di Brian Robbins vede, ora, a protagonisti, personaggi come Felicity Huffman e il di lei consorte, ma anche Lori Laughlin e rispettivi pargoli.
L’inchiesta, seconda per impatto solo al #MeToo, ha scoperchiato i macchinari di un ingegnoso sistema fraudolento, affinché la genia dei casati più abbienti d’America venisse ammessa presso le Università più altolocate. A capo dell’astuta manovra, Rick Singer, previa generosa donazione. I genitori, in pratica, si rivolgevano al coach, affinché falsificasse i meriti sportivi della loro prole tramite un marchingegno, costellato di finti certificati, foto di gare photoshoppate, inesistenti trofei.
In primo piano, le vicende, messe a nudo, dei eredi di imprenditori, CEO di aziende importanti e anche di Celebrities. Un caso su tutti, quello di Olivia Jade Giannulli, produzione di casa Loughlin. La giovane influencer, le va riconosciuto, ha saputo fare di necessità virtù. Con la madre in carcere, si è data da fare, instancabilmente, per incrementare il numero dei rispettivi followers su Instagram, scorrazzando da un Network all’altro – districandosi tra show televisivi ed interviste – nella volontà – legittima, per carità – di raccontare la propria storia, secondo il personale punto di vista.
Non le importava molto della scuola – racconta – diversamente dal pensiero che nutriva sua madre. E, in fondo, a ben pensarci, che male c’è. Tanto gli accadimenti si sono rivelati roboanti nel Paese, per eccellenza, dei benpensanti che ne è scaturito, dai fatti, persino un libro: Unacceptable, scritto da Jennifer Levitz che, fedelmente, rivela i retroscena del pruriginoso caso.
La Huffman, dal canto proprio, ha scontato i giorni di carcere, dopo la sentenza del 2019. Ha pagato quanto doveva, mentre sua figlia Sophia ha ceduto, nel percorrere la strada di noi comuni mortali, che intendiamo iscriverci ad una buona università. Si è messa a studiare, pensate, cercando di superare il test d’entrata con quello che – apriti cielo – per molti è il percorso naturale. Si prendono, in sintesi, i libri in mano, si leggono, si introiettano e rielaborano i contenuti, si stabiliscono i collegamenti… eh sì che è un termine strano, desueto, bislacco, persino, secondo alcuni, ma per la maggioranza, ancora, si chiama studio.
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