Toxic Positivity: quel sofisticato ‘inciucio’ con cui ci convinciamo di badare a noi stessi
“Come stai?“, “Bene, grazie!“. E tutto si risolve così. Due parolette brevi brevi, per descrivere la dimensione di quel che siamo o che sentiamo in quel momento. Ma poi, a pensarci bene, nulla ha a che vedere con la verità. Ma come si fa a rispondere: “E’ stata una giornata tremenda e mi sento affondare…”, oppure: “Va che sto male e non riesco a tirarmene fuori“? A chi può importare? Che, se anche non ce lo siamo espressamente rivelati, sappiamo, in cuor nostro, che l’atto di informarsi equivale, in certo qual modo, ad una sorta di pro-forma. Un po’ come quando ci si accomoda a tavola e tutti sanno – senza esserselo ripetuto – che bisogna rimanere composti. Poi, la realtà vive da un’altra parte ma lì, in quel preciso istante, si tratta di aderire ad un’etichetta. Per cui ci si maschera. Sorriso di circostanza e via. Per non creare disturbo. Per non concedere carte all’avversario. Per non dare all’altro modo di criticarci o, peggio, di compatirci.
TRAPPOLE INVISIBILI
Ed ecco che le emozioni, quelle reali, vanno a farsi benedire, rinchiuse o obnubilate chissà dove. Il processo in questione – per chi non ne fosse al corrente – prende il nome di Toxic positivity, sorta di cortocircuito, in cui l’apparire domina sull’essere, schiacciandolo fino a far male.
Partiamo dal presupposto che i pensieri positivi sono, in genere, nostri alleati. E’, al contrario, l’ottimismo forzato, inteso come unica possibile soluzione alle difficoltà, che rischia di intossicarci. Fingere che vada tutto bene non risolve i problemi. Equivale, semplicemente, ad affossarli sotto un tappeto e con cui, che ci piaccia o meno, prima o poi, ci troveremo a dover fare i conti.
FRASI TRABOCHETTO
Certo, descritta in tali termini, la questione si presenta come un compendio di vaga teoria. In realtà, è qualcosa che capita a tutti. C’è chi la concretizza ripetendosi: “Non ho il diritto di lamentarmi“. Quale sofisticato sabotaggio… Perché? Perché c’è chi sta peggio di noi? Perché mostrarci deboli è motivo di vergogna? Come se, da un lato, abitassero i bravi, forti e felici; dall’altro, risiedessero gli ingrati, che si prendono il lusso di esprimere il proprio sconforto.
“Potrebbe andare peggio“. Eccolo, il secondo messaggio traditore. E’ vero, niente da obiettare su questo ed è fondamentale portare il massimo rispetto per chi ha vissuto in prima persona eventi spiacevoli. Ma ciascuno di noi ha una percezione differente di quel che accade. Non sono i fatti, ma la ripercussione che operano sulla nostra facoltà di accoglierli.
Ci inganniamo persino quando ci ripetiamo che “Ogni evento può insegnarci qualcosa“. E’ un atteggiamento ammirevole, laddove si intenda reagire. Ciò non toglie che l’esistenza, a tratti, possa travolgerci. Non dobbiamo sentirci obbligati, in quel frangente, a recitare la parte dei Supereroi. Ci sarà tempo per razionalizzare.
“Andrà tutto bene“. Ok sdrammatizzare, ma l’ottimismo forzato non deve e non può trasformarsi una prigione.
SPAZIO AI TURBAMENTI
Dunque, se da una parte è errato trascorrere le giornate, una via l’altra, nell’inerzia e nell’insoddisfazione, altrettanto pericoloso è trincerarsi dietro una facciata di resilienza. Disperarsi, ogni tanto – impariamolo – fa bene. Equivale, in qualche modo, a liberare le tossine. Come quando piangiamo, per capirci.
Quando si tende ad indossare una maschera e sviare, l’auto censura non porta mai nulla di buono. Non ci interroghiamo, dunque non risolviamo né chiediamo aiuto. Semmai, occultiamo, sottaciamo, simuliamo. Insomma, ci inganniamo, a fronte di un peso che chiede, invece, di venir liberato.
Ricordiamoci che ogni trauma, per essere elaborato, richiede tempo. E che, per quanto nasciamo e moriamo in solitudine, non siamo Monadi, ma animali sociali. Esiste chi può fornirci una mano, ma occorre, prima, racimolare il coraggio per domandarla. La vera rivoluzione è tutta qui. Nell’aprirsi e pretendere quel che ci spetta di diritto.
DISINNESCHIAMO I LUOGHI COMUNI
E il sano ottimismo? Che fine ha fatto?
Il punto è che, nel mare di emozioni che ci colpisce, ognuna ha un giusto spazio in cui riporsi. E’ il mix a renderle, tutte, ugualmente preziose. Se si trattasse dell’epilogo di un film, piuttosto che della morale di una fiaba, potremmo riassumerla così: la toxic positivity tende a condurci fuori strada.
Impariamo – allora – a riconoscere, accettare e vivere intensamente quel che ci alberga, anche ciò che, comunemente, viene bollato come negativo. Siamo un coacervo di bene e male, bello e brutto… non sforziamoci a tutti i costi di definirci. Impariamo, semplicemente, a vivere con noi stessi. Accettiamoci ed amiamoci: smarriti, imprecisi, fallimentari, disordinati… o anche vincenti. Siamo sempre noi. Sempre quelli. Ed il bello, quello vero, in fondo, si riassume qui.
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