Lina ciao! E abbiamo detto tutto
Giunti alla veneranda e rispettabilissima età di 93 anni, c’è poco da dire, o da rammaricarsi. Eppure, in questo caso specifico, oltre alla donna, viene a mancare un talento. Del resto, raccontare di Lina Wertmuller significa narrare, pure, del suo infinito e splendido lavoro e del suo spirito, forte e gaio.
L’animo, forse, di colei che, nata pressoché a cavallo di un secolo – classe 1928 – si porta appresso un excursus di oltre 30 film e un’esistenza, certamente pregna.
Così, di Lei, hanno detto: Harvey Keitel, che “vederla lavorare è una gioia“; Martin Scorsese: che “i suoi film sono come il carnevale“. Niente di meno che Henry Miller – immaginate – in una lettera alla sua ultima amante, scrisse che, vedendo Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, aveva pensato che “Hollywood non si sarebbe mai concessa tutta quella libertà“.
Ad un Golden Globe (ne ha vinti due, uno nel ’75; uno nel 2009, alla carriera), Robert Altman si alzò e, imponendo a tutti di tacere, le si inginocchiò davanti e le baciò i piedi. Nel ricordare l’episodio, la ‘nostra’ commentava, ironica: “La verità è che ho piedi bellissimi“.
E, la medesima sagacia, la sfoderava, ricordando le 4 nomination per Pasqualino Settebellezze. “Sulla poltrona a me assegnata – ricordava – feci sedere la mia amica, Lalla Kezich. Quando m’inquadravano, il mondo vedeva lei. Ci fu chi disse che l’Oscar non me lo diedero per quella beffa, ma non credo“. Oppure, nel momento in cui narrava delle sua sosta ad Hollywood: “una volta, feci schizzare una patata al cartoccio sulla faccia del più potente azionista della Universal Pictures. Mi disse “ottima mira, baby” e non lo sentii più“.
Rimane la donna che rifiutò un milione di dollari dagli inglesi di Penthouse per girare Caligola:
“Volevo un Caligola mio, non scritto da Gore Vidal. Allora, il produttore mi offrì due milioni per dirigere Caterina di tutte le Russie e, di nuovo, dissi no. Dopo, avevo le lacrime agli occhi. Mi sentivo eroica, però mi rendevo conto di essere anche un’imbecille. Avevo rifiutato un fiume di soldi, in nome dell’integrità artistica. Ma non mi sono pentita“. Ed è proprio questo il carattere con cui aveva iniziato. Al via de I Basilischi, in quel lontano ’63, “l’intera troupe di Federico Fellini, del quale ero stata aiuto regista ne La Dolce Vita e in 8½, venne come me in Basilicata, solo per la mia simpatia. Alcuni erano gli stessi che, al mio primo apparire sul set accanto a Federico, s’erano dati di gomito: “Ao’, c’avemo l’aiuto regista col visone”. Ero donna, giovane, di buona famiglia, ma il visone era un visone modesto“.
Un personaggino, a cui, in effetti, la tempra non è mai mancata… “Mi chiamarono a salvare un film western, in Jugoslavia. Accetto, usando uno pseudonimo maschile. Vado e trovo il disastro. Mi si presenta l’organizzatore, vestito da cowboy, perché desiderava fare la comparsa. Per risposta, gli tiro un cazzotto sul naso. Poi, arriva il protagonista, un americano, e mi chiede di non fare a Elsa Martinelli più primi piani che a lui. Gli rispondo che fingo di non aver sentito. Il giorno dopo, giravo Elsa che fa il bagno in un lago e vengono a dirmi che lui stava lasciando il set, perché mi occupavo troppo di Elsa. Misi di spalle una controfigura col costume dell’americano e la feci pugnalare alla schiena, in una scena creata lì per lì. Fine dell’americano. Gli feci dire che per me era morto e cambiai protagonista“.
E ancora, in merito a Luciano De Crescenzo: “Sul set di Sabato, domenica e lunedì, nelle scene a tavola, sottolineava le battute col dito alzato. Gli dissi di smetterla. Una volta, due. La terza, mi avventai sul suo indice e gli diedi un mozzico“.
E se, a Monica Vitti, distrusse un vestito… “Eravamo a Parigi, in teatro. Tutti dovevano recitare in tuta, lei non voleva. Scoprii che le era arrivato un abito di voile azzurro e che lei aveva tagliuzzato la tuta. Allora, tagliuzzai l’abito, feci rammendare la tuta e le dissi: “Mettiti questa, Ceciarelli, sennò ti spacco la faccia”. Ceciarelli era il suo vero cognome“.
…nei confronti di Mariangela Melato si dimostrò una vera talent scout: “Il direttore della fotografia di Mimì metallurgico ferito nell’onore continuava a dirmi: “non c’ha zigomi, non è fotogenica”. Ma se una faccia mi piace, io galoppo il cavallo. Quello fu il primo di una serie di film di lei, in coppia con Giancarlo Giannini. Insieme erano formidabili“.
Una, per sue stesse parole, annoiata dall’etichetta, un vero e proprio Gianburrasca, “cacciata da undici scuole. La volta più clamorosa fu quando, all’asilo, venne ‘la vigilatrice’ a esaminarci. Avevo chiesto di uscire per fare la pupù, ma non mi avevano dato il permesso. Ripetei la richiesta, niente. Al che, mi calai le mutandine e la feci, davanti alla vigilatrice“.
Una, cresciuta a pane e Stanislavskij ma, pure, nel’allegra compagnia di Garinei e Giovannini. “Ricordo Wanda Osiris, che inciampa e cade di testa nella grancassa“.
E ce ne sarebbe tanto da dire… del suo legame quarantennale, ad esempio, con il compagno di vita; Enrico Job – artista, attore, scenografo – e del loro amore, fulminante e duraturo. Di Lei, persona coraggiosa, vivace, arguta. Una, che se gli si domandava: “Come riuscì a farsi prendere da Fellini?” Rispondeva: “E che ne so. Gli sarò sembrata intelligente“. Che non faceva previsioni, riguardo al futuro: “Quando guardo avanti dico: Boh!“
Ecco. Questo e molto molto altro era Lina, o meglio Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich. E non ci va di aggiungere nulla, perché non ce la sentiamo e perché è in grado, ancora adesso, da regista mondiale quale è e quale è stata, di definirsi da sé e magari, commentandosi, financo in questo frangente, di strapparci l’ennesimo sorriso, timbro di fabbrica di una figura irripetibile…
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