Quando il cibo si conservava… senza frigo
Non tutto e subito. Non, almeno, ciò che, invece, si può conservare nel tempo. E, certo, i metodi per salvaguardare il cibo non sono sempre stati sofisticati come quelli odierni ma ingegnosi, questo sì.
Così, nel Medioevo, in una società prevalentemente agricola, ci si affaccendava, per poter resistere, durante eventuali periodi di siccità, carestia, guerre. C’era, poi, l’idea che, salvaguardando gli alimenti, se ne rendesse più agevole il trasporto da parte di soldati, mercanti e pellegrini. La tecnica adoperata – ovvio – dipendeva dal prodotto e dal particolare effetto desiderato, anche a livello organolettico.
E, se è risaputo che l’umidità consenta una rapida prolificazione dei batteri, è altrettanto comprensibile che il processo di essiccazione sia tra i più adoperati, sin dall’antichità. Dunque, a tal proposito, diretti interessati erano i cereali, la segale e il grano, fatti seccare al Sole o all’aria, prima di essere riposti da parte. La frutta? Veniva esposta al Sole nei paesi dai climi caldi; direttamente al calore del fuoco, in quelli dall’atmosfera fredda.
In Scandinavia, per dirne una, il merluzzo veniva sottoposto alle basse temperature naturali, in grado di scendere fino allo zero. La carne, differentemente, veniva essiccata. Tagliata a strisce sottili e leggermente salata. E, se l’operazione non veniva condotta all’aperto; era portata a termine, direttamente nei rifugi.
Altro metodo, abbastanza comune era la salatura, magari adoperata in combine con l’affumicatura. In tal caso, la carne veniva cosparsa di sale e i pezzi stratificati in un contenitore, con altro sale, con la garanzia che durasse anni. Idem dicasi, per verdure e miscele di erbe.
Sebbene non fosse efficace a lungo termine, anche la salamoia aveva il suo perché. Valido escamotage, per mantenere il cibo commestibile, per una o due stagioni. Certo, l’operazione del dissalare era abbastanza ostica. Più semplice, senza ombra di dubbio, la marinatura. Usata soprattutto in Europa, contribuiva, per giunta, ad insaporire le pietanze. Ottenuta per mezzo di acqua, sale e alcune erbe, non mancava chi adoperava, per ottenerla e speziare, anche aceto e limone. Una volta impregnato di sapore, il cibo veniva posto in barattolo, pregno del succo in cui era stato lavorato.
Per pesce e maiale, largo all’affumicatura. Prevedeva, la regola, l’immersione nel sale, per poi appendere al fuoco la merce interessata, affinché assorbisse l’aroma del fumo, mentre si asciugava lentamente. Del resto, il sale rappresentava un salvacondotto: scoraggiava le mosche, impediva la crescita dei batteri e accelerava l’eliminazione dell’umidità.
In quanto alla frutta, una ulteriore trovata era ricoprirla di miele. Risoluzione talmente efficace, da venire, più in là, scelta anche per la carne. Confit, pure, inteso come carne cotta nel suo grasso; di solito, anatra o maiale. In un secondo momento, sigillata e conservata in luogo fresco.
C’era, ancora, la fermentazione, capace di accelerare, in contrasto con altre strade, il processo di decomposizione degli alimenti. Esattamente come si fa oggi, il vino veniva fermentato dall’uva, l’idromele dal miele e la birra dal grano. Il sidro veniva fermentato da mele e pere. A tal proposito, rinomata era la bevanda, prodotta dagli Anglosassoni, chiamata “perry“.
Fermentazione, anche per il formaggio. Il latte, di pecora e di capra, era, al tempo, più comune di quello vaccino. Poiché il clima era, nella maggior parte dell’Europa, piuttosto temperato, si preferiva al congelamento. Prediletto, invece, quest’ultimo, nelle regioni del Nord, in specie nei castelli o nelle grandi ville, dove le cantine venivano utilizzate per conservare i cibi, imballati nel ghiaccio invernale. Va detto, rifornire una ghiacciaia richiedeva parecchia manodopera, perciò non era particolarmente comune. Più frequente era, sull’argomento, l’uso di stanze sotterranee, appositamente dotate.
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