Merope’s Tales (capitolo 1)

Merope’s Tales (capitolo 1)

Merope: sapete cosa significa? Il nome deriva dal greco antico. Si chiamava così una delle Pleiadi. L’unica, pensate, che ebbe l’ardire di sfidare gli dei.

Perciò, adesso, si nasconde, vergognosa. Fa capolino, di tanto in tanto, tenendosi, per lo più, a riparo. E’ piccolina, Merope. Una stella velata. Mérop, del resto, significa: dal volto intelligente.

Comunque, non crediate, coraggiosa era coraggiosa. Si narra che abbia ucciso il secondo marito, che aveva, a sua volta, eliminato il suo primo sposo. Mica roba da poco! Ogni 13 di luglio… festeggiate il suo onomastico!

Perché ve lo racconto? Perché intendo introdurvi alla storia della Pleiade perduta. Nome, questo, che fa riferimento ad un olio su tela, datato 1884.

L’Etoile Perdute, opera di un pittore francese del tardo ottocento: William Adolphe Burghereau.

Il dipinto rappresenta una donna, completamente… nuda, dalle carni candide e quel corpo eburneo si scontra con il violaceo del cielo, che lo circonda e lo comprende. Ne definisce la pianta dei piedi, sino al capo, disegnandone, attraverso le movenze, un arco perfetto. Le braccia, invece, sollevate sopra la testa con le mani intrecciate, sovvengono ad un tiepido risveglio mattutino. Del volto, neppure un indizio. Lo nasconde, furbetta, coprendolo con il braccio destro; mentre le lunghe chiome fulve rivelano appena il profilo dei seni.

Poco lontano, seminascoste dalla caligine, danzano 6 giovani, ugualmente prive di abiti. Tutte, sul capo, indossano la scintilla luminosa di una Stella. Tranne lei.

Lei, cha aveva scelto, in sorte, di unirsi a Sisifo, re e fondatore di Corinto. Spregiudicato. Astuto… Lei, che aveva abdicato alla regalità divina, per unirsi ad un cuore terreno… mortale. Pentita? Chi lo sa. Tuttavia, per tale ragione ha smesso di brillare. E qui si pone l’eterno dissidio: meglio un’immortalità solitaria, fulgida luce che abbraccia la notte o non, piuttosto, la scelta di attenuarsi per… per amore? …se di amore si tratta.

Fuori metafora: Merope, dunque, giunta a riconquistarsi la sua luce. Pronta a rivendicare quel che le appartiene… per diritto di nascita.

Merope… Biscotto.

Già. Perché ogni Stella ha diritto ad un nome completo. Alla sua riconoscibilità. Ecco come nasco, oggi. Prendo le mosse, secondo la leggenda, da una luce tramontata. Rarefatta, arrivo forse così, al momento. Ma dietro la coltre di nebbia si intravede qualcosa. Un sussurro insperato, che somiglia ad una voce. Che ricorda la mia voce.

Questa storia, lo avrete dunque compreso, inizia qui, con me. E si avvia, alla stregua di un viaggio. Un percorso in un mondo colorato, labirintico, vitale, fiabesco… un universo scanzonato, in cui vince chi entra. La strada, nel Burlesque, assomiglia al cemento che conduce verso casa…

E’ un atto di seduzione, vero. Una forma di intrattenimento, ma non dimenticate mai che, qui, la donna è il soggetto. E’ la maliarda, la celebrante di un ufficio, in fin dei conti, tutto suo.

Lei ammicca, Lei provoca, voluttuosa; lancia sguardi, lascia intravedere… Lei nobilita, attraverso maniere considerate agé, quel che misura delle nostre debolezze. Sapientemente, gioca a soverchiare i ruoli. Sembra preda ma è predatrice. Pare lasciarsi divorare, ma è Lei che si sazia. Un boccone, poi un altro… Novella amazzone, tende le briglie… poi allenta la presa. E’ così che esercita il suo potere.

Dunque, di cosa si tratta? E’ forse una ballerina? Un’odalisca? Una spogliarellista? E’ un attrice? Una cantante? Una nostalgica? Una, che fa delle contaminazioni la propria abilità? Scherzo e parodia, queste sono le sue carte. E teatro, in cui ogni talento, sia pur collaterale, è il benvenuto!

Ecco, Lei serve geometrie su di un palco arredato di lustrini. Si applica, con estremo rigore. Si unge del diverso, per riconquistare la sua personalissima essenza. Lei cattura gli occhi di chi assiste, inconsciamente ignaro, ad un atto di conquista e il rapporto con l’avventore si fa presto singolo, invitante, pretenzioso di qualcosa di più… rapimento dei sensi, in cui sempre e solo Lei si erge a Regina.

Sacerdotessa di uno spettacolo ‘fatto da una donna, per celebrarne la femminilità‘.

Ancella di un riconoscimento che le ha richiesto fatica. Le ha lastricato il cammino di sacrifici; che l’ha vista protagonista di fughe dell’ultimo momento, ingiustificatamente inseguita da gendarmi o da chi, inizialmente, non l’aveva compresa. Costretta a vagare, di sera in sera, ad inventarsi altro da sé. Un giocoliere, un clown, un Pierrot… mille significazioni, altrettante sembianze, per sfuggire alla presa, per non cedere a chi era intenzionato a fermarla.

Questa è una favola rubata, un po’ distorta. Dissonante, a tratti, eppure, proprio per ciò, ancor più poetica e vera. Alcune hanno rischiato e c’è chi ha pagato per tutte le altre… ma ciò che conta è l’avanguardia, il senso tutto nuovo di una corsa al divenire che fa delle donne, di alcune donne, anime elette: moderne, pioniere, Soubrette.

Oh no, non servette, né cameriere, come suggerisce l’etimologia della parola, bensì Brillanti realtà, coacervo di capacità attoriali e… bella presenza, che si sa, non guasta mai. Figure versatili, camaleontiche…

Donne, in posa. Dal trucco esagerato, dai toni pomposi. Artificialmente create addosso ad altre donne, stanche di essere dimenticate, persino da se stesse.

Dietro le quinte, o davanti. Questa è la scelta. Qui il bivio, lo sliding doors, che solo alcune, le più coraggiose o le più fortunate, riescono ad attraversare.

I codici di cui si servono per comunicare, per comunicarsi… sono intuitivi, mai urlati e la perenne trasformazione le rende inafferrabili. Chimere, fantasmi, sogni… che si comunicano attraverso le camminate ancheggianti, i gesti solenni e quel riecheggiare di tempi andati, laddove quel che più non c’è, suggerisce un pensiero di nostalgia.

Eccomi, allora, pronta a varcarla, la soglia di questo domani, sconosciuto ed invitante. Servito su un di vassoio, che sembra carico di prelibatezze. Metto indosso un nome che suoni e che suoni ‘bene’. Che rimanga impresso, che si stampi presto nella memoria.

Mi appresto a compiere il mio primo passo, in un universo composto di donne, per le donne. Mi avvicino ad un gineceo dove le età, le storie, le motivazioni non si assomigliano… oppure sì. Bionde, more… c’è chi viene da lontano. Chi, prima di farsi viva da queste parti, addirittura, ha fatto il giro del mondo…

Merope entra. Si toglie, subito prima, le scarpe, per non inficiare il pavimento di un Tempio, devoluto alla messa in scena di un messaggio conturbante, birichino, frivolo come gli orpelli di cui si serve. Non dimentica, però, del sottotesto.

Ci si conosce, guardandosi negli occhi, senza abbassarli e in quegli istanti, per quanto brevi, ci si misura con l’infinito. Ci si avvia, silenziosamente o meno, alla ricerca di quanto si deve essere perso – o non si conosce, di sé. Lo si deve aver dimenticato, da qualche parte, inavvertitamente. Abbandonato, perché venuto a noia o, magari, perché non ci si era creduto abbastanza.

Che importa chi siamo? Siamo portatrici sane di esperienze; di storie, che chiedono di essere riscritte con un finale differente. Ebbene, quel respiro leggero padroneggia questi ambienti, così che si osservi a giusta distanza quel che non va. Utile, per non rimanerne sopraffatte, per non sbugiardarsi.

Dignità, equilibrio, assurda presenza in un posto tra i più lontani dall’immaginario. Eppure… d’un tratto funziona. “E’ come se infilassi un vestito creato su misura per me!”. Parla, Dea, fiera di essersi interrogata e di aver trovato, finalmente, un posto in cui non sentirsi ‘spostata’. Il baricentro, qui, è stabile. Il centimetro qui conta, solo per poter confezionare abiti dal taglio effervescente, tripudio di strass e di perline.

Qui non ci si indaga… non si va a rovistare tra le debolezze. Ci si mostra, qui e solo qui, come in un luogo segreto e magico, riparato dal fuori…

Ognuna si veste di un nome non suo che si fa suo, che assume la profondità di una seconda pelle, latex che aderisce addosso; velluto o seta, ad accarezzare quel che c’è sotto. Così Jolanda Oranzi nome che rievoca alla lontana le atmosfere alla Wanda Osiris – racconta di sentirsi un maschiaccio e, nel mentre, arrossisce come la più tenera e deliziosa delle bambine. Svela un’inaspettata timidezza. Scioglie i capelli e… ed è un’altra.

Essere donna è un lavoro. Un’attitude, che si impara con il ripetersi dei giorni e che, spesso, richiede un prezzo. Lo sa bene chi racconta di un trascorso duro, sofferto. Chi, proprio come Merope, proprio come me, ha scelto di sacrificarsi per cause non sue.

Sapete con cosa si scontra l’Amore? Con la paura. Se il primo è ‘senza morte’, l’altra è codardia. Muori e divieni allora e lasciati avvolgere da un’esistenza che ti appartenga più ancora della precedente, poiché l’hai scelta, voluta, selezionata a tua raffigurazione.

Abbraccia la vita e mantieni il presente, questo è il messaggio della prima lezione. Segue, il riscaldamento. E l’ipnosi. Risate… lo specchio che riflette le immagini… e le innamora. Ancestrale e sempre valido strumento, per ricondurci alla nostra natura di tentatrici. Eva, tra Eva, ed Eva… Semplici, prive di pieghe. “Forse, mi sarei dovuta chiamare Tweety… e un bel giorno, Tweety scappò dalla gabbia, sorvegliata costantemente da Silvestro“. C’è un mondo, dietro poche parole… L’alfabeto dei corpi emerge inconsapevole… scevro da giudizio.

Il viaggio di Merope, il mio viaggio personale e personalissimo, prende l’avvio così, nella comprensione che non esistono regole fisse. Il corpo, si suggerisce, è più elegante se servito… di tre/quarti. Le spalle, i fianchi, tutto si muove secondo una legge non scritta, ma consapevole. Ereditata. Una gamba, leggermente portata in avanti. L’altra, dietro, ben tesa. Spalle larghe, petto in fuori, a riprodurre la famosa linea ad S, vanto dell’Ottocento che promuoveva una donna ‘a clessidra’: vita da vespa; fianchi e seni burrosi.

Il resto si compone di sorrisi, mi ripeto – lo so – ma è così… braccia che si aprono a fiore. Baci: sfuggenti, audaci, lanciati quasi per caso… aiutati dagli strumenti appositi. Guanti e boa, di cui disfarsi… piano paino, alla riscoperta di una lentezza, anch’essa, perduta.

Immaginate come potreste sentirvi all’apprestarsi di un pasto colmo delle migliori leccornie. Non precipitatevi… non abbiate fretta. Gustate, assaporate… godete.

E se è vero che ‘gli uomini sudano, le donne traspirano e le ballerine brillano‘, sganciate i bottoni del vostro corpetto con maestria; imparate a sfilare scarpe e calze con destrezza, adoperando una gestualità che sembri ‘naturale’. L’arduo è rendere tale ciò che tale non è. Bisogna illudere, ingannare. Valersi di artifici, innocenti artifici, che si adoperino a creare e far sopravvivere, almeno per i minuti della performance, l’idea del verosimile, più vero dello stesso vero.

Artificiare, sottintendere, con oculatezza e misura. Per non eccedere, per non rimanere ancora una volta prigioniere di un incantesimo, che poco o nulla ci appartiene. Per piacere. Per piacersi, addobbate di tutto punto e chi più ne ha, più ne metta. E’ una ridda di bracciali e collane, piume e guepiere, culotte e reggiseni, copri capezzoli, cappelli… accessori, pronti a venire in nostro soccorso. Un paradiso di colori iridescenti, di merletti e rouge, inchinati apposta al nostro cospetto. Fortunate, noi, predestinate, predilette.

Ci appaga, tutto questo riflettere; gazze ladre, nutre la nostra vanità. Ci entusiasma e ci introduce altro appetito, addosso. Ci sprona a ripeterlo, questo vissuto, a rievocarlo, a tornare… complici, divertite, abbandonate al non pensiero…

E’ già tardi. E’ ora di andare e quando usciamo si sente l’indolenza, si respira la premura, già assunta e per nulla scontata, nel volersi rivedere.

Ad orchestrare – che non vedo termine più consono – l’opera buffa e sentimentale girata in queste poche ore, Grace Hall. Una diva, nel suo campo. Di più, un’anima bella, che si lascia intravedere, secondo la sua arte, e che, immancabilmente, colpisce e stimola la mia curiosità.

E’ di lei che, presto, ho intenzione di parlarvi…

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