Vistosi, ipnotici, irrinunciabili: ecco i gioielli di Marlene
Bugie? No, non serviva mentire. Bastava tergiversare, stendere una nebbia sottile, confondere – come dire – le acque. Riguardo alla sua data di nascita, in merito a sua figlia (a favor di divismo hollywoodiano), su eventuali flirt e/o presunte avventure sentimentali.
I gioielli… no. Quelli, per Marlene Dietrich, rappresentavano una reale passione, ostentata senza ausilio di filtri e sublimata in diamanti, rubini, fasce in oro o in platino. Tesori, che la Diva più ricca del Cinema di allora acquistava per se stessa, pronta a sfoggiarli, poi, status symbol di una felicità che andava non solo indossata, ma anche e soprattutto esposta. E, immancabilmente, accadeva.
Con calcolata protervia, da contratto faraonico imponeva i monili sul set. Infilava i panni dei personaggi e, insieme, un pezzo, prelevato dalla sua personale collezione, appositamente selezionato affinché ne accompagnasse i movimenti, ne valorizzasse il ritmo suadente della voce. Inconfondibile, d’altronde e sussurrata, laddove il sonoro era ancora agli esordi e creava aspettative. Anzi, sogni.
“Il glamour è sicurezza. È una sorta di consapevolezza che stai bene in ogni modo, mentalmente, fisicamente e in apparenza e che, qualunque sia l’occasione o la situazione, sei all’altezza“, ebbe a dire una volta. E lei, indiscutibilmente, lo era.
Pioniera, per tanti versi e interprete di scelte – anche queste dubbie di mistero – in cui venivano prese le distanze dalla patria natia. Una Germania, in cui i nazisti cominciavano ad assumere il potere (lei se ne andò per motivi di lavoro, ma non volle mai tornare). Lei, che rappresentava l’alter ego di una compostezza di matrice, invece, scandinava. Greta Garbo era, di fatto, almeno secondo la narrazione dell’epoca, sua diretta rivale.
Anelli, bracciali, collane, orecchini – dicevamo – assunti a compagni di un’intera vita. A cui non rinunciare, se non sul finire, al margine dell’esistenza, mettendone una discreta parte all’asta, prudentemente e in maniera lungimirante. Custodendo tutto il resto. Quel ‘resto’ rappresentato da rubini e diamanti, selezionati ad uno ad uno. Così, il rosso freddo richiamava il tono delle labbra arcuate – ‘ad uccello‘, si sarebbe detto in gergo – dipinte sul suo volto e ben esposte a campeggiare sui poster dei film più famosi. Poi c’erano i diamanti… prima ancora che lo dichiarasse Marilyn, evidentemente, vestivano il ruolo di migliori amici.
D’altronde, questo era – pure – il modo per far ritorno all’infanzia, cresciuta Lei, la Divina, al seguito di una madre – tale Elisabeth Josephine Felsing – che l’aveva tirata su nella gioielleria di famiglia. Dunque, l’occhio era allenato. Nella bottega orafa sita a Berlino aveva imparato a riconoscere la qualità. Un fiuto per il bello e l’originale talmente sopraffino, da condurla, nel 1937, all’acquisto del celebre Jarretière di Van Cleef and Arpels. Assai più che un bracciale. Un simbolo di stile inconfondibile. Una creazione esteticamente straordinaria, che tanto richiamava alla memoria la parimenti nota, in zaffiro e diamanti che Edoardo di Windsor, il mancato re d’Inghilterra, regalò a colei che le aveva rapito il cuore e, in un certo qual modo, la Corona. Ne aveva fatto dono alla sua Wallis, in occasione del matrimonio, in Francia, proprio nello stesso anno e, stando alle ricostruzioni, disegnato (il gioiello) da Louis Arpels in persona.
C’è chi, addirittura, al riguardo, paventa la teoria, secondo cui si tratterebbe dell’assemblaggio di due gioielli in uno. Da qui, la grandezza insolita del pezzo e la sua unicità, impreziosito – per di più – dalla personalizzazione delle iniziali M.D. sulla chiusura. Pare – persino – che l’attrice lo abbia comprato con i guadagni del contratto blindato e favorevolissimo – va da sé – con le produzioni Statunitensi, siglando per sempre il binomio tra divismo e preziosi.
Fatto sta, tanto lo amava che lo tenne con estrema cura e lo rese coprotagonista anche sul set. Compare in Stage Fright di Alfred Hitchcock, accanto a una collana di diamanti e rubini di provenienza e storie sconosciute. Ebbe modo di sfoggiarlo, ancora, agli Oscar del 1951, di cui è rimasto – testimonianza cult – un video. Storia, quella del bracciale, proseguita – come da manuale – anche dopo la morte dell’interprete tedesca, naturalizzata Americana. Conquistato – è il caso di dire – all’asta dall’interior designer e socialite Anne Eisenhower per una cifra ignota ma ragguardevole (la base sfiorava già il milione), è stato rivenduto, nel 2023, per la cifra astronomica di 4,5 milioni di dollari.
Emblema identificativo di Colei che, prima e più di ogni altra, segnò le sorti del Grande Schermo, al fiorire del Novecento.
LEGGI ANCHE: Marlene Dietrich e quello smokey eyes, sempre attuale
LEGGI ANCHE: Dive… e divine