Barbara, Alma, Juanita: tre ragazze per il ‘Conte’
‘La ragazza troppo bella‘. Troppo sfortunata, aggiungerei io. Troppo… drogata, raccontano le cronache. Mi chiamo Barbara La Marr e il mio spacciatore di fiducia, come per molti, era il Conte. Noi, almeno, tutti noi di Hollywood, lo chiamavamo così.
Ho sbagliato a dirvi che ‘mi chiamo‘. Più giusto sarebbe dire che ‘mi chiamavo‘. Già, poiché sono morta, per overdose, a poco meno di trent’anni. Tante primavere, per provare… di tutto. Stupefacenti, intendo.
L’eroina mi ha portata via, vero, ma ciò non toglie che facessi uso, anzi, abuso – riconosciamo a Cesare quel che gli appartiene – ugualmente, di cocaina. La conservavo in uno scrignetto d’oro, posizionato sul mio piano a coda. Riguardo all’oppio, si favoleggiava, poi, che fosse la miscela più pura di Benares.
Le mie lenzuola, allora, scottavano. Pare fossero affollate. Voi come vi comportereste, d’altra parte, se vi restasse tanto poco da vivere? Così, mi dilettavo… tra un uomo e l’altro. Amanti “a dozzine, come le rose” e uno stuolo di mariti… ne ricordo almeno cinque… o sei. Insomma, non avevo tempo da perdere, la notte, perciò mi concedevo di riposare sì e no due ore. Non di più. “Avevo di meglio, da fare!“.
Che poi, a guardar bene, rientravo nello stereotipo perfetto della Femme Fatale. Mi ci avevano incastonata – o dovrei dire incastrata, piuttosto – quelli degli Studios. Si aspettavano grandi cose da me.
In effetti, per assecondare le loro ambiziose aspettative, gli offrivo spesso l’occasione affinché si chiacchierasse…
Nel 1913, di ritorno da un viaggio in Arizona, mi sposai con un allevatore di bestiame, tale Jack Lytell. Era rimasto vedovo di recente… Ecco, io guidavo la mia automobile e Lui correva, in groppa al suo cavallo. Mi ha rincorsa… finché non è riuscito a raggiungermi. Il giorno seguente ci stavamo dichiarando amore eterno, in Messico.
Cosa rimanga di Reatha Dale Watson, questo il mio nome, all’anagrafe, realmente non so dirvelo. Credo si sia dissolta presto, sfumata tra i pensieri. Oh, non crucciatevi, non mi è mai piaciuto. Preferivo di gran lunga Beth, il soprannome che mi avevano attribuito da piccola.
Volete saperla tutta? Credo che la mia sorellastra, Violet, ad un certo punto, abbia tentato di rapirmi. Sì, si è fatta aiutare da due balordi. Inutilmente. Il caso è perfino finito sui giornali. Mi ricordo che, all’epoca, la faccenda suscitò un discreto clamore. Poi i fatti vennero archiviati, ma tant’è. Capite? Non ero solo una sceneggiatrice, ero una destinata a dominarlo, lo schermo. Nata per stare davanti, non dietro.
Il debutto fu al fianco di Douglas Fairbanks in Come presi moglie, nel 1921. Sono apparsa in oltre trenta pellicole ma credo che la mia notorietà sia pienamente riferibile al ruolo di Milady de Winter ne I tre moschettieri. Anche lì, c’era Douglas ad accompagnarmi. Che volete, i miei partner – quelli cinematografici, specifichiamo – erano tutti di un certo livello: cavalieri di grido quali Rodolfo Valentino, Clifton Webb, Ramón Novarro. Con lui ebbi modo di girare Il prigioniero di Zenda, nel ’22. Ballavo, pure, sapete? Le mie radici vanno ricercate nel Burlesque. Mio fratello, d’altronde, William, divenne, negli anni ’20, un’interprete del Vaudeville. Il pubblico lo conosceva come Billy Devore. Mio fratello… forse dovrei specificare: il mio fratellastro, ero figlia adottiva.
Non mi credete? Già, già, sempre la stessa storia che i drogati raccontano fandonie. Se anche lo feci, occorreva per accreditare il mio fascino… per donargli quel tocco di esotismo. Si usava, ai tempi, tutto qui.
Insomma, vi dicevo, il matrimonio con Jack durò un anno. Nel ’14 la passione era già tramontata. In compenso, si fece largo, nel mio cuore, Lawrence Converse. Poi, fu la volta di Phil, Phil Ainsworth; Ben Deeley; l’attore, Jack Dougherty. Oddio, non ricordo se, per caso, ce ne furono altri… ci fu, sicuramente, il padre di mio figlio. Marvin Carville La Marr venne anch’egli adottato, alla mia dipartita. Pensate, sul suo conto si narra che ebbe una relazione con una giovanissima Elizabeth Taylor.
Sto divagando?
Vero, ma mi annoio. Forse potrei raccontarvi di Alma. Alma Rubens, destinata al successo, preda, invece, di quella sua ‘inequivocabile debolezza’ ‘verso sostanze, ammettiamolo, proibite; allora come adesso. L’eroina era caduta in preda… all’eroina. Buffo, no?
Beh, se di me dichiararono – solennemente ed inequivocabilmente – che ero deceduta per… una dieta troppo rigorosa, al suo riguardo, un surreale incidente, avvenuto nel pomeriggio del 26 gennaio 1929, si rivelò ‘illuminante’, per mettere in chiaro come stavano realmente le cose.
Immaginate di passeggiare lungo l’Hollywood Boulevard. Ad un certo punto, udite una donna gridare: “Mi rapiscono! Mi rapiscono!“. Corre, intanto, disperata e, nel mentre, si strappa di dosso il cappello, i guanti… sfila via la borsetta, per gettare tutto in un rigagnolo. Giunta presso una Stazione di servizio, la donna prova a rifugiarsi tra i distributori di benzina, ma in due la raggiungono. Allora, dal vestito tira fuori un coltello, pronta al tutto per tutto. Ferisce il più giovane. Poi, viene disarmata dal benzinaio. Si verrà, in seguito, a scoprire che stava scappando, in verità, dal suo medico personale, il dottor E. W. Meyer e dall’inserviente dell’ambulanza. L’attrice si era spaventata, nel momento in cui li aveva visti arrivare, per tradurla in un manicomio privato.
All’Alhambra Clinic sembravano aver svolto un buon lavoro. Sembravano… Una volta a casa, Alma accoltellò la sua infermiera. Fu indirizzata, quindi, al reparto neurodeliri di Los Angeles. Successivamente, trasferita a Patton, nel Manicomio di Stato della California, per una ‘cura’ di sei mesi… Quando, finalmente, lasciò il suo ricovero, Alma ebbe modo di dichiarare: “Sono tornata a stare meravigliosamente bene, dopo questo periodo di riposo. Ora vado a New York, per cercare di riprendere la carriera. Prima il palcoscenico. Poi, spero, Hollywood…“.
In effetti, ad Hollywood ci tornò, alla fine. Era il 1931. Aveva appena divorziato dal suo terzo marito: Ricardo Cortez. Tuttavia, si rivelò più potente la voglia di… di viaggiare, mettiamola così. Diretta verso Agua Caliente, oltre il confine messicano, si muoveva in macchina, accompagnata da Ruth Palmer, una starlette dell’epoca.
Nel far ritorno, le due sostarono al U. S. Grand Hotel di San Diego, dove Alma venne prontamente fermata. E arrestata. Aveva appresso quaranta cubetti di morfina. Alcuni, addirittura, erano cuciti negli orli dei suoi vestiti. Nel momento in cui vide entrare gli agenti, iniziò a gridare: “Mi hanno rubato novemila dollari di gioielli e questa è tutta una montatura, per rovinarmi!“.
Ah, povera Alma, era stata proprio Ruth a denunciarla, impaurita dai suoi eccessi d’ira, dagli sbalzi, frequenti, d’umore. Ormai le rimaneva poco. Così, di nuovo a casa, volle concedersi un ultimo vezzo. Un’intervista, rilasciata all’Examiner. “Stavo male da tanto tempo. Andavo dai dottori, solo perché mi sollevassero dalle sofferenze e tutti mi dicevano: ‘Prenda questo contro i dolori e riuscirà a tirare avanti’. Quando cominciarono a darmi quell’odioso veleno, io non sapevo che cosa fosse. Passavo da un medico all’altro. Uno si mise persino a ridere, quando gli dissi che non potevo più fare a meno della droga. ‘Non abbia paura. Non ne avrà più bisogno, quando starà bene’. Ma non smettevano mai di darmi quella roba. E finché avevo denaro potevo avere la droga. Avevo paura a dirlo a mia madre, ai miei migliori amici. Desideravo una cosa sola: procurarmi la droga e prenderla di nascosto. Vorrei potermi inginocchiare davanti alla polizia o davanti a un giudice e pregarli di fare leggi più dure, perché la gente rifiuti lo sporco denaro degli assassini che vendono questo veleno e che, quando sono arrestati, pagano e riescono a farla franca“.
Povera Alma.. morì, nel gennaio del ’31. Aveva trentatré anni. Ci illudevamo di essere i padroni del mondo. Ne eravamo, invece, completamente schiavi. Un universo marcio, viscoso, in cui affondavamo un giorno via l’altro, irrimediabilmente…
Sfortunata, non più, né meno, di Juanita Hansen.
La prima, se così vogliamo definirla, tra le celebri bellezze al bagno di Mack Sennett. Il Conte, mettiamola in questo modo, non risparmiò neppure lei. Un lunedì mattina, sul presto, aveva avvicinato la biondina, che ancora risentiva dei postumi di una sbornia. Un weekend ‘alcolico’. Sapete come andavano le cose… tra di noi era possibile, nonostante il proibizionismo. Anzi, probabilmente era proprio l’idea di trasgredire, quel potersi permettere ciò che, per gli altri, per la gente normale era inarrivabile, che ci entusiasmava.
Insomma, quella mattina, il Conte fermò Juanita e le domandò: “Hai il doposbronza, cocca? Adesso te lo faccio passare io…“. Primo ‘assaggio’ gratis e l’esca era gettata. Mi domando, ancora, come abbiamo fatto a cascarci…
Uno schiocco di dita e Juanita acquistava droga a settantacinque dollari l’oncia. Anni a venire, ricorderà, riguardo al suo spacciatore. “…lo stesso che avevo incontrato quel giorno fatale, nello stesso posto e mi aveva venduto la prima cartina di eroina. Da allora, ero diventata la sua migliore cliente“.
Lui, in realtà, era un’attore piuttosto noto, anche se non proprio un divo. “Fiutai una polverina, lì dove stavo. Non me ne importava niente dei medici, dell’ospedale, del pericolo che correvo. Desideravo una cosa sola: l’eroina e ne comperai una buona scorta“. Era risuccesso, come in altre occasioni, precedentemente, a Los Angeles, tra la Quarta Strada e Spring Street.
Nulla di nuovo, in fondo. Tutti sapevamo, tutti eravamo complici, conniventi di un modus operandi lesivo, prima di tutto per noi stessi. Ma se io ed Alma ci eravamo comunque ‘salvate’ dal vedere i nostri nomi impressi sul Libro Nero preteso da Will H. Hays, vessillo del buoncostume, portabandiera di quel che si poteva o si doveva non fare, non fu altrettanto per Juanita, che si ritrovò segnalata, schedata, in una schiera di oltre centodiciassette personaggi ritenuti pericolosi, a causa della loro condotta, evidentemente, ‘non più privata’.
Si apprese del suo coinvolgimento, per via di una lettera rilasciata da un dottore di Oakland, dal quale aveva cercato di curarsi. Quando venne arrestata era ‘pulita’. Venne trattenuta settantadue ore, necessarie per verificare il suo stato di salute. Di sostanze ‘alteranti’ nessuna traccia, ma i giornali si dimostrarono ugualmente caustici.
La stella di The lost City si era perduta, destinata a finire nel dimenticatoio. A salvarla, in extremis, non certo il Cinema, bensì la Juanita Hansen Foundation, un’associazione nata con l’intento di convincere quanti indossavano il camice a dichiarare guerra alla droga “come oggi si combatte la sifilide“. Ennesima crociata, che ancora avrebbe visto cadere parecchie vittime…
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