Merope’s Tales (capitolo 9)

Merope’s Tales (capitolo 9)

Vi azzardereste mai, voi, a camminare per strada, con al guinzaglio un serpente? Ebbene, sappiate che questo accadeva nell’America dei anni ’40, protagonista della vicenda Zorita. Eh già, poteva capitare, passeggiando per i marciapiedi delle più rinomate città, di imbattersi in colei che, equipaggiata di curve da mozzare il fiato, si divertiva… proprio così. Trastullandosi, bad girl, in compagnia di un grosso esemplare strisciante…

Una donna dall’accento misterioso. Tutto lascia pensare ad origini basche ma il suo vero nome rimase a lungo sconosciuto. Kathryn, suona, in verità. Di cognome, Boyd. Nata a Youngstown, in Ohio, nel 1915. Adottata, in tenera età, da una famiglia metodista di Chicago e, ancora adolescente, già alle prese con la propria carriera. Merito delle forme evidenti ed evidentemente piacevoli e di un carattere spigliato, che le permise di farsi largo come modella prima; nel ruolo di ballerina, poi. Allietava – come dire – le serate di quanti partecipavano alle numerose feste di Addio al celibato e, più in là, persino quelle della… Colonia nudista di San Diego.

Pensate, davanti a una ragnatela di strass, lasciava che le zampe di un ragno invisibile la depredassero dei suoi indumenti. Poi – come dire – le cose si fecero più serie…

Elmer ed Oscar erano, dunque, i suoi… compagni di avventura. Boa constrictor, entrambi, due metri e mezzo di lunghezza, inseparabili cavalieri di performance che avrebbero, in seguito, scritto un rilevante capitolo nella storia del Burlesque. Non trascorse, difatti, parecchio tempo, prima che la sua indole la spingesse ad adottare lo stile e il linguaggio artistico per cui è tuttora ricordata. Complice, pure, l’incontro – inaspettato e determinante – con un incantatore di serpenti.

Sul palco, ad ipnotizzare il pubblico basito, erano – pertanto – in tre, grazie ad una serie di coreografie introdotte alla memoria come provocatorie e radicali. In grado di risvegliare gli spettatori, anche rispetto a questioni sociali.

Talvolta, in occasione delle sue rappresentazioni, si sdoppiava. Spiego meglio: In Mezzo e Mezzo, ad esempio – questo era il titolo dell’esibizione – si presentava sul palcoscenico con indosso un costume, ideato proprio di suo pugno che, per metà, la rappresentava nei panni di maschio e, per l’altra, ovvio, in quelli di femmina: una sposa. Preludio, la messa in scena, di quella che si sarebbe poi trasformata in una danza tra amanti, fatta di allusioni, intervallata da litigi, costellata di passione. Sposo e sposa si toglievano i vestiti l’un l’altra, accompagnati da una movimentata marcia nuziale.

Sfiorava, insomma, il tema dell’identità di genere, pioniera e decisamente in anticipo sui tempi. Creava scalpore e, così facendo, alimentava i dibattiti.

I suoi ‘fidati amici’ la affiancarono anche in quello che, forse, è da considerarsi il suo numero più celebre. Il compimento del matrimonio del serpente narrava le vicende di “una splendida fanciulla che sta per essere venduta come schiava a un brutto vecchio. Invece, balla con un serpente, viene morsa e muore“. Chissà cosa avrebbe commentato, al riguardo, Cleopatra? Ultimo atto di un cigno che conosce già la sua sorte. Si contorce e, nel farlo, perde, oltre la vita, le vesti. Consumata, a poco a poco, Lei soccombe al suo ignaro e innocente carnefice, fornendo un’interpretazione, nel frattempo, intensa ed ispirata, tragica ed evocativa.

Tra uno spettacolo e l’altro, poi, il contatto con il pubblico. Si aggirava tra i tavoli, con al braccio Elmer ed Oscar che sfioravano le teste dei clienti. Si racconta che una sera, un uomo, spaventato dalla vicinanza dei rettili, le abbia puntato addosso una pistola minacciandola; obbligando il titolare del Club ad intervenire.

Beh, non tutti si osserva il mondo con la medesima prospettiva… tant’è, ogni sera si registrava il Tutto esaurito. E immaginate, stando a quanto ho avuto modo di raccontarvi finora, se anche la nostra non sia incorsa, nella sua esperienza di vita, nelle morse della Censura.

Aveva appena 23 anni, quando fu denunciata da un gruppo di donne – brutta cosa l’invidia, non siete d’accordo? – con l’accusa di atti osceni. Così è se vi pare, oppure Sono come Tu mi vuoi, avrebbe detto Pirandello. Fatto sta, Zorita si presentò in tribunale “indossando abiti convenzionali e un paio di occhiali verdi, incorniciati da petali di margherita“. Quando lasciò la Corte, confessò, rivolgendosi a un ufficiale che, alla fine, l’intera faccenda era “un po’ banale“. Condannata a sei mesi di carcere, nel febbraio del 1949 si ritrovò nuovamente dietro le sbarre, contestata, questa seconda volta, per crudeltà verso gli animali. Le confiscarono i rettili. In quanto a Lei, se la cavò pagando una cauzione.

Che altro c’è da aspettarsi, in fondo, da una donna fiera e scanzonata nell’affrontare l’esistenza. Parlando del privato, aveva suscitato scalpore la sua aperta bisessualità. Sapete? Pur avendo sposato e divorziato da tre uomini – non uno, tre – amò sempre una sua collega ballerina. Tale Sherry Britton. Nel 1954, poi, nacque sua figlia e decise, Zorita, che era quello il momento giusto per ritirarsi.

Smessi gli abiti di danzatrice, si propose quindi al mondo, in quelli di imprenditrice, aprendo svariati locali a New York e Miami.

Nel 1974, oramai quasi sessantenne, si trasferì in Florida e qui – udite udite – scambiò i suoi insostituibili serpenti, determinata ad allevare… gatti persiani.

Ah, che universo straordinario è quello del Burlesque e, sempre in tema di animali, sapete chi, prima e meglio di qualunque altra, seppe rappresentare, attraverso le proprie movenze, il librarsi di una farfalla?

Loïe Fuller, o meglio, Marie Louise Fuller che, pur non avendo mai studiato al riguardo, si dimostrò un’avanguardista, in fatto di danza. Capace di combinare insieme l’ondeggiare delle stoffe e gli effetti delle luci che, letteralmente, ne baciavano il corpo in movimento.

Una donna poliedrica. Una mecenate, pure, immediatamente ricercata e ritratta dagli artisti dell’epoca.

Una musa, per Toulouse-Lautrec. Una ‘rondine’ del palco, scritturata a gran voce, a partire dal 1892, immaginate dove… ovvio, no? Alle Folies Bergère.

La Loïe, il cui nome d’arte venne rielaborato e rivisitato più volte, stava a rimarcare non solo il senso dell’udito, ma ne rivelava, ancor più nel dettaglio, la straordinaria capacità di attenzione e quell’attitudine alla comprensione, sintomatici di un’indole, evidentemente, speciale.

Quel suo fare da attrice, prima ancora che da ballerina, ne descrisse, del resto, l’intera carriera. Una teatralità immediata, ricavata dalle molteplici esperienze presso i teatri di Vaudeville, i circhi, gli spettacoli di Varietà e, ovviamente, quelli delegati al Burlesque.

Un mondo di gesti repentini, il suo, segno lampante di un talento all’improvvisazione che le diede modo di costruirsi, a guisa di un solido mattone, giorno dopo giorno, esperienza dopo esperienza, in un lasso di tempo che, dal 1865, si estese almeno fino al 1891.

Una donna” – sottolineano le cronache dell’epoca – “di delicata sensibilità, dotata di un’incredibile percezione dei valori spirituali. È una di quelle persone in grado di conoscere il significato profondo delle cose che sembrano insignificanti e vedere lo splendore nascosto in una vita semplice“.

Strano a dirsi o, piuttosto, insolito, per una che aveva scelto la via dei lustrini. Eppure… “è profondamente religiosa, con uno spirito di indagine molto acuto e un’ansia perenne sul destino dell’uomo. È meravigliosamente intelligente e istintiva. Ricca di così tante doti naturali, sarebbe potuta diventare uno scienziato“.

Forse non fu così che andarono le cose ma, di certo, non lesinò – la nostra – riguardo alle personali ambizioni o, magari, fu la vita, di sua sponte, a tracciarne il cammino. Dietro l’angolo, l’attendeva un futuro da manager, autrice teatrale, coreografa e, nel contempo, il successo nelle Capitali più prestigiose: Parigi, Londra, New York… Pensate, fu per suo merito che Isadora Duncan ebbe modo di esibirsi, in alcune prestigiose tournée Europee.

Un’imprenditrice? Un’agente? Un’insegnante? Una donna: che la parola, spesso, quando la si esprime appieno, sottolinea tutto questo… e nasconde anche altro. Non molto alta, ma aggraziata e di bell’aspetto, fortemente miope, altrettanto umile. Non modesta, badate bene che, quella, è un’altra cosa. Non si definì mai una danzatrice nel senso stretto della parola, ma c’è chi la considera una sorta di Leonardo in gonnella, curiosa di sperimentare in ogni ambito le potesse interessare.

Cos’è la danza? È movimento. Cos’è il movimento? L’espressione di una sensazione“, scrive, nella sua autobiografia. E prosegue, risoluta: “Non le parole, ma i movimenti sono corrispondenti al vero“.

Un’anima sveglia e… dimenticata. Riposta segretamente in un cassetto per circa un secolo, per poi, a quasi cento anni di distanza dalla dipartita, venire riscoperta. Fatto sta, compare – oggi – nel Gotha dei danzatori. 113 nomi che comprendono la crème de la crème di tutto il mondo, tra cui il suo.

Rispolverate – vi raccontavo – con Lei, le idee innovative e l’intraprendenza che, per tutta la vita, l’hanno caratterizzata. Audace, allestì un proprio padiglione presso l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, a fianco di quello… beh, e ve lo dico tutta fiera, accanto a quello di Auguste Rodin. Fu autrice di pièces teatrali e di alcuni proto film (uno, che vedeva, addirittura, un giovanissimo Réné Clair nel ruolo di protagonista. Le Lys de la vie, si intitolava).

Un genio, almeno dal canto mio. Capiva che, al di là del ballo, sui quei pochi metri quadri da cui riusciva a trascinare il suo pubblico si nascondeva assai di più. Si celavano, in erba, i presupposti affinché luci, colori, suoni, tessuti intervenissero, a favore di un’esibizione che voleva e meritava di disegnarsi diversa da tutte le altre. Dunque, brevi nozioni in illuminotecnica valsero la febbrile attività in assoli e coreografie dal fortissimo impatto visivo.

Liberatasi dai costumi classici del balletto, a favore di lunghe tuniche in seta colorata, esaltava, in tal maniera, la messinscena.

La sua Serpentine Dance, datata 1891, personale rivisitazione della skirt dance, che aveva studiato nel periodo di lavoro presso il Gaiety Theatre di Londra, parla da sé.

Sperimentava, avvalendosi del metodo e dei rudimenti della scienza. Così, quasi per paradosso, l’estrema leggerezza di un taglio di seta, legato intorno al collo anziché in vita, sorretto da canne di bambù nascondeva, in verità, una struttura talmente pesante da condurla alla decisione di trasferirsi in un piccolo appartamento interno al teatro, a poche decine di metri dal palcoscenico. In Le Lys du Nile (1895) la gonna era costituita da 450 metri di seta finissima e, allargandosi, poteva raggiungere i tre metri di distanza dal suo corpo, in ogni direzione.

Nello studio sulle tinte, poi, Loïe prese ad ispirazione l’astronomo Camille Flammarion, scoprendo ella stessa che, se il giallo – ad esempio – infiacchisce, il malva provoca… sonnolenza. L’illuminazione dal basso, che brevettò nel 1893, rappresentò un’atra tra le tante innovazioni e se, nella Danse du feu, le sciarpe di cui si ricopriva finivano per assomigliare ad enormi lingue di fuoco, nella Salomè (1895) le proiezioni e i vetrini sulla lanterna magica creavano l’effetto di una tempesta: la luna sulle onde, un mare di sangue e nuvole in corsa… 

Venne financo nominata, grazie agli studi continui e perennemente aggiornati, membro della Società astronomica francese.

Precorse – d’altronde – con questo suo carattere e influenzò l’Art nouveau, rimanendone sedotta a sua volta. Affascinata dai continui richiami floreali, dal virtuosismo cromatico… adorata dai Simbolisti e, nel particolare, dal loro mentore: Stéphane Mallarmé. Apprezzata, pure, dai Futuristi, è ricchissima l’iconografia che la vede interprete di grafiche, opere scultoree e oggetti di uso quotidiano: vasi, lampade, boccette di profumi….

Le bambine non imparano ma realizzano“, era solita ripetere. La maieutica Socratica trasportata in un universo di composizioni, dove la dancer riesce ad assumere i tratti di giglio o di violetta, a seconda delle circostanze. Poi, passa ad interpretare i 4 elementi e, dopo aver vissuto l’identità di aria, acqua, persino di foschia, rivolge l’attenzione ai fenomeni naturali, trasformandosi in tifone, bufera, vulcano.

Evocazioni, immagini di fantasia, che devono aver suscitato l’invidia, evidentemente, dell’assai nota amica – o sedicente tale – Sarah Bernhardt – la quale non perse l’opportunità per strapparle i preziosi segreti. Cosa che, peraltro, tentarono di fare anche tecnici, elettricisti o quanti lavorarono, negli anni, al suo fianco.

Al bando le costrizioni. Tutte.

Metamorfica e innovativa, si liberò del formalismo accademico e trascinò davanti agli occhi degli spettatori le scienze occulte e la pratica dell’ipnosi. Aria e carne, tessuto volatile e tessuto organico, Loïe Fuller era una Ninfa e, alla stregua dell’energia dinamica di cui amava ricoprirsi era, pure, apertamente omosessuale. E, se mai fece scandalo, mettendo in piazza le personali propensioni, neppure ne fece un mistero, attratta dalle numerose allieve, con le quali – sovente – la corrispondenza soverchiava di gran lunga quella meramente professionale. 

Gab Sorère, tuttavia, nome d’arte della scenografa e regista Gabrielle Bloch rappresentò un punto fermo e la firma, che ne sigillò gli ultimi trent’anni di vita.

Da otto anni, io e Gab viviamo in grande intimità, come due sorelle“, confesserà, sull’argomento. Nulla di più. Niente manierismi. Al bando, pure, i piagnistei. Non ebbe problemi a chiudere la tournée in Russia, per cui fu costretta a pagare pesantissime penali, pur di tornare a casa, al capezzale di sua madre, alla quale era fortemente legata.

La ‘fata della luce’ era così. Abile nel selezionare le amicizie, ma parimenti generosa. “Qual è, dunque, la scuola suprema dei filosofi se non – purtroppo – la miseria?“.

A portarla via, una polmonite, il 2 gennaio del 1928. Anni prima, le era stato asportato un seno. Un tumore, provocato – probabilmente – dalle radiazioni ionizzanti delle ali di farfalla al radium che rendevano fluorescenti i suoi spettacoli.

Ecco, facciamo un gioco. Facciamo finta che il tempo si ripeta. Illudiamoci che gli stessi occhi indossino un nome ed un cognome diversi, più attuali. Moderni, ora come allora, ugualmente straripanti della stessa fame, della medesima passione… Solo, inconsapevoli. Lasciatemi – vi domando – quel tanto che occorre per raccordare le idee.

Siete curiosi? Una breve pausa e torno subito da voi…

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