Charlie e altre vicende

Charlie e altre vicende

Eravamo come libellule che si libravano nell’aria apparentemente senza sforzo, ma in realtà battevamo le ali molto, molto in fretta…“. Le memorie consegnate ai posteri da Mae Murray, seppur riportate sul supplemento domenicale surreal-folkloristico di Hearst: The Amerirican Weekley, la dicevano lunga, sul nostro conto.

Così, era un continuo parlare di noi; delle nostre abitudini ‘dissolute’, vere o presunte; delle passioni, più o meno legittime; dei peccati che ci riguardavano e poco importava che fossero reali o meno. Contava che, all’orecchio della gente, ‘suonassero bene!’. Tutto qui e chi raccontava delle nostre prodezze – Louella Parsons in prima fila – lo sapeva bene. Aveva imparato in fretta, del resto, che “i pezzi su Hollywood aumentano la tiratura“. Era risaputo, “purché siano piccanti, sorprendenti, o decisamente scandalosi“.

Solo nel 1926, i giornali dedicarono molto più spazio ai quattordici divorzi e alle tre separazioni, che ai ventitré imenei stellari che caratterizzarono l’anno. C’era, d’altra parte, costantemente a disposizione del cicaleccio, un nuovo vizio o un inedito pericolo, sempre all’erta.

Magari, la Reginetta di bellezza, l’ennesima, che non aveva sfondato e, perciò, si mostrava propensa a rivelare al mondo le brutalità a cui era stata sottoposta. Rovinata, per gli anni a venire. In cambio, la sua ‘bella’ foto campeggiava in prima pagina, foraggiata – l’amara e sventurata confessione – da una lauta somma di denaro.

Vanitosi anni Venti, i nostri, che tennero la stampa rosa – e la gialla – costantemente alla ribalta. Ettolitri d’inchiostro venivano riversati, sbavando e colmando le pagine delle riviste, pronte a narrare – ipocrite e ricche di doviziosi particolari niente affatto necessari – delle ‘perverse notti di Cinelandia‘. Dalla barricata opposta, il pubblico di commessine dall’indole pruriginosa beveva tutto golosamente ed era disposto a sborsare tutti i suoi spiccioli, pur di saperne di più.

Louella, a tal proposito – vi dicevo – Nostra Signora del vaniloquio – forniva, grazie al suo gracidio mattutino, all’America intenta alla prima colazione, tutte le quotazioni della Corsa all’Alcova Hollywoodiana.

Mentre, poi, l’ambiziosa Lolly e la sua legione di spacciatori di notizie altamente o scarsamente velenose agivano su scala Nazionale, le veline scandalistiche dei maggiori centri urbani offrivano, dal canto proprio, pietanze sapientemente speziate.

Secondo il Graphic C non esisteva “un posto più infimo di Hollywood“. La ‘Nuova Babilonia‘, così l’aveva definita, con tanto di sobborghi a d’uopo: Santa Monica/Sodoma e Glendale/Gomorra.

Aleggiavano, nel nostro universo impregnato di danaro, alcool, droga, corruzione, follia, suicidio e una ridda di delitti da far impallidire persino gli anni in cui del concetto di Legge non si era neppure ventilata l’idea. Insomma, i tre cents – tale era la cifra – spesi dalle grisettes per una veloce lettura sul tramvai erano, tutto sommato, un’esborso plausibile.

La Nuova Babilonia era, tra l’altro, il palco ideale per gangster di terza categoria, contrabbandieri, spacciatori, truffatori, ricattatori, scassinatori, maghi (più o meno ambiziosi, o capaci) dell’estorsione. E ancora, deviati sessuali, apostoli di religioni prive di senso (e di senno), astrologi dell’ultima ora, medium fasulli, evangelisti ermafroditi, falsi guaritori, chiromanti disonesti e pseudo-psicanalisti parassiti. All’appello, in questo carrozzone impazzito, non mancava proprio nessuno.

Rapaci, che aleggiavano sulle teste (spesso vuote) di ragazzine inesperte. Tonte, per dirla tutta e malate di Cinema, adescate assai facilmente con promesse fasulle; irretite e poi, al dunque – stupidelle dal bel faccino – abbandonate sul marciapiede, tasche vuote e sogni infranti.

Per me era diverso. Io mi dedicavo, anima e corpo, al mio lavoro. Frequentavo i ricevimenti, vero, ma non ne avevo mai dato uno. Trascorrevo il tempo, piuttosto, interi mesi, a limare e ricomporre le trame dei miei film. Eccesso di perfezionismo, forse. Di fatto, ci spendevo un sacco di soldi.

Insomma, non cercavo certo lo scandalo. A dire il vero, era valido esattamente il contrario. Era lo scandalo a cercare me e bussò alla mia porta in più occasioni. Mi deridevano. Quell’ometto minuto e solitario, inglese per nascita, avaro – almeno stando alle dicerie – e con una fortuna ‘sfacciata’ – questo era ciò che dava maggiormente fastidio, allora – con le donne. Di tutte le età, badate bene. Il mio nome era stato legato, in successione, a quello di Edna Purviance, Lila Lee, Josephine Dunn, Anna Nilson, Thelma Converce, May Collins, Claire Windsor, Clare Sheridan e Pola Negri.

Solo un assaggio, mettiamola così, delle mie doti di maschio. Buffo no, si esaltava l’immagine da strappa cuori di Valentino e, intanto, io, Charlie, nel mio ‘piccolo’ – si fa per dire – a fronte di tante chiacchiere, mi davo ‘realmente’ da fare.

Quando Peggy Hopkins Joyce giunse in quel di Hollywood, sembrava che il destino avesse già previsto i fatti che sto per raccontarvi. Per chi l’avesse incontrata o fosse appena addentro nell’ambiente, rappresentava, quest’ultima, l’emblema della Ziegfield girl. Furba, rapace, capace di sfilare un gruzzolo non indifferente – ben 3 milioni di dollari – da un pulviscolo di mariti, loro sì, indifferenti. Era arrivata, giusto in tempo per visitare la ‘Mecca del peccato‘, in quel 1922 che voleva Hollywood totalmente all’altezza della sua fama.

Pochi giorni prima, un giovanotto, in quel di Parigi, si era ucciso per lei; così, i diamanti che la agghindavano non facevano che metterne in risalto la mise, nera. O forse no, forse era il lutto che serviva a mettere in evidenza i gioielli.

Il nostro primo incontro ce l’ho ancora vivido nella memoria, come fosse oggi. Un pranzo a due, con tanto di battuta d’esordio a stemperare eventuali attimi di imbarazzo e – badate bene – non fui io a pronunciarla: “E’ vero quello che dicono tutte? Che Lei ce l’ha grosso come un cavallo?“.

Alla faccia della timidezza! La ragazza non era smarrita, né confusa, né inconsapevole, per cui, nel giro di poco ci ritrovammo, insieme, sull’isola di Catalina. Intenti ad amoreggiare, ‘la biondona e l’omino‘, per un breve periodo. Giusto lo spazio di una vacanza, un diversivo dai miei impegni di lavoro: in quel periodo stavo girando Napoleone.

Scovammo una spiaggia appartata, dove far merenda e intrattenerci. Dove scorrazzare nudi, lontani da occhi indiscreti o, almeno, di ciò eravamo convinti.

Non avevamo fatto i conti con la fama. Come poteva la presenza di ben due celebrità passare inosservata? I più intrepidi tra gli aborigeni presero ad arrampicarsi su per la montagna che dominava la baia, curiosi di sapere, di vedere… Poco dopo, quasi tutti i caproni del posto vennero ribattezzati con il mio nome…

Peggy mi raccontò, in quel frangente, delle sue ‘avventure come cercatrice d’oro’ ed io ne feci tesoro. Costituirono il là, le spontanee confessioni, per A woman in Paris, che avrei girato tempo a venire.

Beh, non ero uno stinco di santo, ma non ho mai agito perché lo si pensasse. Mildred Harris rientra nell’elenco che mi vuole un ‘rubapulcini‘. Le coltivavo sin da piccole, vero. Non trovate che, in qualche modo, il fatto rappresentasse, ai miei occhi, una garanzia? Mildred aveva 14 anni quando la conobbi, in occasione di un ‘coperta party’ sulla spiaggia.

Il 23 ottobre 1918 venne celebrata la nostra unione. Quindi, quanti tra voi mi ritengono un depravato o un inqualificabile Peter Pan sbagliano. Era incinta e mi assunsi le mie responsabilità. Il guaio è che non trascorsero neppure 48 ore, che già Louie Mayer, magnate del Cinema di allora, le mise gli occhi addosso. La adulò, con un contratto che la poverina, senza consultarmi, firmò all’istante. Dunque, The Interior Sex sarebbe stata la sua pellicola d’esordio. Il film, interpretato dalla… Signora Chaplin. Sorta di saga, quest’ultima, sulle beghe familiari; un po’ come, parallelamente, succedeva nella trama reale che riguardava le nostre quattro mura.

Verità è che la mia sposa-bambina non spiccava per intelligenza e la commedia del quotidiano finì presto per sfiorare le note della tragedia. Accadde, nel momento in cui la giovane mise al mondo un maschietto, deforme. Lei rischiò di rimetterci la vita. lui… morì, per fortuna. Sulla lapide fecero scrivere: “Il topolino” e, in effetti sì, se ci ripenso, quel sorriso forzato e fittizio che gli fecero dipingere sul volto lo faceva davvero rassomigliare ad un sorcio.

Durammo poco, tutto sommato. Merito, pure, delle notti trascorse – da Lei – tra le braccia di Alla Nazimova (sono sicuro che già la conosciate). La ‘donna dai Mille Stati d’Animo‘ me la stava portando via, un giorno dopo l’altro, senza possibilità di intervento. Una cosa, in verità, la feci.

L’8 aprile 1920, presso l’affollatissima sala da pranzo del prestigioso Alexandria Hotel. Mi ritrovai Maeyer di fronte e non tergiversai. Lo accusai di istigare mia moglie ad alzare la cifra dell’assegno di divorzio. La manovrava, è presto spiegato e non mi andava giù. Quando l’uomo, con un moto di disturbo, si avviò a grandi passi verso l’atrio, lo seguii. Si voltò e mi gridò, allora, a pieni polmoni, affinché tutti potessero udire: “Pervertito schifoso!“. Lo sfidai a levarsi gli occhiali. Ero furioso. Inaspettatamente, l’ex rigattiere lo fece. Se li strappò dal naso con la sinistra, mentre con la destra mi sferrava un colpo che avrebbe rintontito chiunque.

Mi ripescò Jack Pikford, risollevandomi di peso dalle Palme su cui ero planato e mi trascinò via, sanguinante. Seguì un ultimo sguardo di sfida: “Ho fatto solo quello che avrebbe fatto qualsiasi ‘vero’ uomo“, ghignò, fin tanto che si allontanava.

Avrebbe dovuto rappresentare una lezione, per me ma non fu la prima né l’ultima delle mie leggendarie sfortune. Mi attendeva, poco più in là in ordine di tempo, Lo-Lita o Lita, come in molti, di certo, sono abituati a conoscerla. Lita e il resto del clan McMurray avrebbero, di lì a poco, ‘fatto scempio di me’, assai più diabolicamente e artatamente. Ma questo racconto merita un’attenzione diversa. Non qui, né ora. Verrà la circostanza, assai presto…

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