Quel triangolo costato troppo caro…
“Hollywood, Hollywood, Hollywood favolosa. Lussuosa, lussuriosa e ridicola. Gloriosa e dolorosa, generosa e volubile, paurosa e sfrontata. Stralunata, festosa e terribile. Ignobile, adorabile, pidocchiosa e ineffabile. Rozza, pazza, geniale, magica, tragica, illogica. Fatale e provinciale, avida e splendida, viziosa e candida. Hollywood portentosa, per metà buffonata ma per metà leggenda. Colorata, disperata, stupenda… Hollywood!”
Don Blanding
Hollywood, impiastricciata di sangue; nonostante l’aria, quel 16 aprile 1927, fosse tersa e respirasse del profumo del venticello di primavera. Solo una cornice vuota. Troppo poco abilitata, o convinta, per contenere la rabbia che, da polmoni e viscere, gridava a piena gola. Quei polmoni, quelle viscere indossavano, la maledetta sera in questione, il nome e il cognome di Paul Kelly. 81 kg per 1 metro e 80 cm di altezza, capelli rosso fuoco e un temperamento altrettanto bollente, quale si addice ad un irlandese-americano cresciuto tra le strade di Brooklyn e divenuto bislaccamente, fortuitamente, un divo del Cinema.
Figlio della proprietaria di un Bar: il Kelly’s Kafe, per l’appunto. Il posto in cui solevano bazzicare gli addetti ai lavori scenici della Vitagraph. Ci si rilassavano, bevevano e, sempre lì, prendevano in prestito la mobilia per il set. Fino al ‘colpo di genio’. In cambio dell’ennesimo favore, la mamma ‘previdente’ aveva chiesto (e ottenuto), per il pargolo adorato, un impiego, alla cifra di 5 dollari al giorno. Così, ‘Pronto a combattere‘, proprio come recitava uno tra i diversi titoli dei suoi film, il neo-attore si era introdotto nell’ambiente, facendo amicizia con le più rinomate Star del periodo.
Nel 1926, finalmente, Kelly era approdato ad Hollywood… la pellicola di cui era protagonista: Slide, Kelly, Slide, era in sala da appena tre settimane e un nuovo successo già si approssimava alla porta. Il giovane, tuttavia, non fece in tempo a presenziare alla Prima. Era oramai troppo tardi… Colpa – volendo estendere l’accezione del termine – di Ray Raymond, 33 anni, 70 kg di peso, a sua volta e un’altezza pari ad 1 metro e settantasette cm.
Ve lo racconto con dovizia di particolari, per puro spirito di precisione.
Ebbene, l’atletico cantante/ballerino si era fatto largo tra le fila delle Ziegfild Follies tra il 1918 e il ’19 e poi, nel 1920, era stato eletto a volto dello show Blue Eyes, niente meno che a Broadway. Fu proprio lì che lo incontrai.
Io avevo 17 anni, allora. Dorothy – o Dottie, fate voi – focosa e dalle chiome color della porpora, a mia volta, in perfetta coerenza con un carattere tutto pepe. Un piccolo vulcano, insomma, per il quale Ray perse immediatamente (e irrimediabilmente) la testa. Una scozzese purosangue, Io, nata per fare spettacolo. La prima esibizione, me lo ricordo ancora, la affrontai a 4 anni. Ballerina, a seguire, in tournée nelle Isole Britanniche. Precoce? Forse… In teatro, fatto sta, le critiche risultavano ottime e non ve lo dico per piaggeria. Però… ecco… ero blesa. Balbuziente – per chi non l’avesse compreso – per cui decisi di specializzarmi nel genere della Commedia e nei Musical, per ottimizzare persino sui difetti.
In occasione dell’avvento del sonoro ci eravamo precipitati in quel di Cinelandia, intenzionati a volercelo divorare, lo schermo. Con uno tra i nostri numeri di Vaudeville, per mezzo del Vitaphone si realizzò un cortometraggio e, dopo poco, eravamo parte dell’elenco che comprendeva le coppie più spiritose – e alcolizzate – dei tempi.
Ciò premesso – e ve lo dovevo – le cose stanno… come spesso stanno certe cose. Una ‘faccenda a tre‘, mettiamola così. Il classico triangolo, in cui Io rappresentavo l’ago della bilancia. Paul era, a detta del mio sposo: “Quel figlio di puttana irlandese, che cerca di portarmi via la moglie!“. Sì, lo rammento come fosse ora. E’ così che diceva.
Quella sera, la discussione era iniziata a telefono. Entrambi ubriachi, si inveivano contro, già dalla cornetta. Poi Ray perse la testa e sfidò l’avversario a presentarsi alla porta di casa. Il tempo, prima che arrivasse il contendente, per scolarsi, come d’abitudine, una quantità straboccante di gin. Magari, se fossi stata presente…
Durante il processo – ve lo anticipo – dichiarai che “ero andata a comprare le uova di Pasqua!“. Prendetela per buona, questa mia dichiarazione. Ve ne prego!
Fatto sta, al match mortale non mancarono certo i testimoni. C’era Ethel, la cameriera di colore, intenta più a preservare il mobilio che a pensare di dividere i due. Valerie, nostra figlia, all”epoca aveva 4 anni. Infine Spot, il nostro fox terrier, con tanto di zampa di legno, che tentò invano di intromettersi nell’alterco. L’unico autentico eroe di questo racconto, a rifletterci.
In breve, Kelly afferrò l’altro per la gola con una mano; mentre con l’altra gli assestava un rullo di cazzotti in piena faccia. La testa del mio povero consorte era finita a ripetizione contro il muro, tanto che, quando tornai a casa, riuscii a stento, aiutata da Ethel, a portarne in camera le spoglie. Ancora vestito, sdraiato sul letto, scherzava sull’accaduto. Poi, svenne. Sensi, che non recuperò più. Due giorni dopo, era morto.
Dovevo assolutamente intervenire. Spargere nebbia, per non giocarmi la carriera. Allora, chiamai il dottor Sullivan, pregandolo di inventarsi qualcosa. Qualsiasi, cosa. Morte sopraggiunta… “per via di complicanze dovute a malattie pregresse” fu, alfine, la diagnosi. Eravamo in salvo, io e Kelly o, almeno, ce lo auguravamo. Non avevamo fatto i conti con Ethel, però. La torchiarono e parlò. Parlò, parlò, parlò… confessò proprio tutto. Fui accusata, dunque, assieme al medico, di favoreggiamento “per aver tentato – come è che scrissero? Ah, sì – di occultare i fatti relativi alla morte di Raymond“.
Immaginate: tutto esaurito in aula, per quello che si tradusse in uno psicodramma di prim’ordine. Nascosta sotto il mio materasso stava una folta schiera di lettere. Lettere d’amore, si intende: “Sono pazzo, strapazzo di te…“, recitava una. In una seconda missiva, l’autore dava sfoggio delle sue ‘qualità di linguista’. “I-fio-fo-ti-fi a-fa-mo-fo, ca-fa-ra-fa…“. Perdonate questa mia ironia che può sembrare fuori luogo, adesso ma tant’è. Tutti, chi più chi meno, ci irridevano. L’Herald Examiner osservò con un certo sarcasmo che Ray, invece di perdere tempo con l’alfabeto, avrebbe mostrato assai più gusto inviandomi un mazzo di fiori.
Tutti si aspettavano… qualcosa. Quando mi fu concessa la possibilità di salire sul banco dei testimoni, rimasero delusi. Non rappresentavo certo il prototipo della femme fatale. Minuta, tutto sommato, nella corporatura; l’acconciatura ‘alla maschietta‘, come in uso in quei giorni; gli occhi a mandorla. Lo sguardo – me lo concedo io stessa – quello sì, vispo e intelligente.
Non amavo le sceneggiate. Quindi, non ne feci, il che non mi rese troppo simpatica, né agli occhi degli inquirenti; né a quelli del pubblico che, curioso, era accorso, per assistere agli eventi. “Dunque, Signorina Mackaye, Lei si faceva accompagnare dal Signor Kelly. Non trovava proprio nulla di sconveniente nelle sue attenzioni?“, mi domandarono. “No, certo. Nessuno ci vedeva niente di male“. “Come mai?“. “Beh, sa, Hollywood è diversa. Noi accettiamo che si violino le convenzioni, perché ci sembra giusto così… voglio dire, la gente del nostro ambiente è più sofisticata, meno conformista…“. “Tanto poco conformista“, mi incalzò il Procuratore, “da uccidere un uomo, soltanto perché è di troppo?“.
Giusto per farvi più addentro comprendere l’atmosfera che mi circondava. Teno, soprannominato anche Giungla, era il cameriere giapponese di Paul. Fece sbellicare dalle risate chiunque, raccontando dei pigiama party che, solitamente, avevano luogo nell’appartamento del mio amante. Raccontò di averci servito a letto la colazione, con contorno di aspirine ed Alka Selzer, sopraffatti – Noi – dal dopo baldoria.
A dar credito, poi, alle dichiarazioni di Lila Lee, James Kirkwood, Nancy Carroll e diversi altri, Kelly era un “bravo ragazzo“. Valse poco, o nulla, l’intervento degli amici fedeli. La condanna sentenziava da 1 a 10 anni, da scontare presso la Prigione di Stato. Quando mi avvisarono del verdetto, mormorai: “Beh, è andata così!”. La scambiarono per arroganza. Alcuni, addirittura, vollero interpretarla come una rottura. Io, invece, ero solo presente a me stessa. Libera sotto cauzione – Lui ai domiciliari – tentai, pertanto, di incontrarlo, mettendo a repentaglio la mia immagine, a fronte della Giuria.
Facemmo l’amore sul sofà di casa Wilson, dove era ospite e ci accorgemmo di amarci, ancora più di prima. Il convegno clandestino, tuttavia, mi costò la libertà. Destinata anche Io dietro le sbarre, da 1 a 3 anni. D’altronde, “Dovevo farlo!“. “Non potevo lasciarlo andare in prigione così…” Volevo comunicargli un messaggio di speranza e dirgli che, se fossi uscita prima di Lui, lo avrei aspettato.
Un tempo avevano quattro baiocchi di un bel colore, giallo come il grano. Adesso, sol per piangere hanno gli occhi. Del pifferaio udirono il richiamo…
Kelly, nel tempo, si era dimostrato un carcerato modello. Leggeva, studiava, perfezionava il suo stile, lavorando sulla dizione e l’importanza della voce. Io, dal canto mio, persa la causa d’appello e respinta la richiesta di clemenza, trasferita in penitenziario presi ad interessarmi alle condizioni in cui versavano le donne in carcere. Conoscenze – e competenze – che mi sarebbero tornate utili più in là, quando decisi di fondare una compagnia teatrale a favore delle detenute e curare la regia di una serie di commedie da rappresentare, servendomi di una cast di ‘feroci assassine’.
Lo so, un po’ mi vergogno ad ammetterlo ma, una volta fuori, sognavo di tornare a calcare le scene, per cui facevo di tutto per mantenermi in forma.
Tutte le mattine, seppure in cella, mi truccavo con cura. Divenni, anzi, in pratica, per via di questa mia abitudine, un esempio da emulare. San Quentin era, all’epoca, una tra le carceri più rigide della Nazione, ma Noi eravamo comunque ‘libere’ di provvedere a noi stesse. Ci cucivamo gli abiti da sole, abbellivamo le divise ed io assursi a consulente di bellezza e confidente per tutte le altre.
Tempo un anno ero fuori. Buona condotta. In capo a 25 mesi, anche Kelly era fuori e ci sposammo, nel 1931 e, come nelle migliori favole, vivemmo ‘felici e contenti’, fino al temine dei nostri giorni. O meglio, dei miei. Il 5 gennaio 1940, rientrando in automobile al Kelly-MacRanch, la villa di nostra proprietà, nella San Francisco Valley, il veicolo su cui mi trovavo sbandò e finì per ribaltarsi, tre volte. A 37 anni ero rimasta schiacciata sotto il volante ma non voglio che siate tristi. Tocca a tutti prima o poi, no?
Piuttosto, mi preme dirvi che, nel 1932, la mia commedia: Women in Prison, andò in scena e registrò anche un discreto successo, tanto la Warner ne acquistò i diritti e la trasformò in un film: Ladies They Talk About. La protagonista? Barbara Stanwyck e non aggiungo altro.
Certo, dovetti fare i conti con la censura. Era evidente che a stento mi avrebbero permesso di portare in scena le smanie inascoltate delle carcerate ‘affamate di maschio‘. Nel 1942, la Warner produsse persino un remake, ma non feci in tempo a godermelo. Non angustiatevi, però. Sono fiera di me e orgogliosa, anche del mio Paul.
Lo avevo difeso, a mio tempo, riportando parola dopo parola quanto mi aveva detto Ray, quella sciagurata sera: “Dot cara, tieni il nome di Paul fuori da questa faccenda. In vita mia ho fatto a pugni tante di quelle volte…“Avevo mantenuto la promessa, semplicemente e, perciò, avevo pagato. Ora Kelly poteva riprendersi il suo. Hollywood l’ipocrita, stavolta si era mostrata, verso il mio secondo marito, pietosa, concedendogli una ulteriore opportunità. Lo attendevano 25 anni di carriera, ancora. Girava una media di 5 film ogni anno e, pensate, in uno, gli fu affidata – per paradosso – financo la parte di un direttore carcerario.
Paul interpretava i suoi ruoli, del resto, in maniera semplice e convincente, agevolato pure da una presenza fisica che lo rendeva credibile, sempre. Il 6 novembre 1956, poi, portò via anche Lui. Un attacco cardiaco ma, prima di congedarmi, vi svelo un ultimo aneddoto. Sia MGM, sia Paramount gli avevano preferito, per la trasposizione cinematografica di due sue commedie, rispettivamente Clark Gable e Bing Crosby. Bravi, vero ma dovettero riconoscerlo tutti: nessuno reggeva il confronto con il talento indiscusso del mio uomo.
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