Eco-villaggi: quella carezza inaspettata che arriva all’anima attraverso la terra
Apro gli occhi e mi ritrovo in questa stanza, che dovrebbe risultarmi estranea. Nemica. E invece no. Sembra quasi che, dalle pareti, si ricavino la strada tante braccia, tese ad accogliermi. Mi sussurrano: “Siamo qui per te. Vogliamo aiutarti“. Strano a dirsi, ma non mi spaventano. Non mi occludono; pare quasi vogliano, anzi, farmi largo. Suggerire il cammino da percorrere, in questa nuova alba.
Sarei tentata di narrarvi perché sono qui, adesso. Ma credo possiate immaginarlo da soli…
Ho trascorso la prima notte nel dormiveglia. Incredula perfino di essere arrivata. Di aver trovato il coraggio per mollare tutto. Svincolarmi da pensieri, legami… orpelli inutili e tentare, finalmente, di raggiungermi. Era già scuro quando sono entrata, così il cuore è ancora in attesa di sorprese. Solo, percepivo la timida ostentazione con cui mi davo sicurezza e mi ripetevo che stavo agendo per il meglio. Facendo la ‘cosa giusta’.
Qui si respirano i principi dell’autosufficienza, della solidarietà, della coesione. Su queste basi mi sono convinta. L’idea di trovare, negli altri, una sezione di me stessa. Persino di quella me che non conosco perché, semplicemente, non me ne sono concessa il tempo. Né il modo. Non mi sono mai venuta a cercare.
Mi affaccio e la prima sensazione è di pace. Sembra di essere fuori dal mondo. La retorica dell’industrializzazione, in questi luoghi, deve essere stata dimenticata, perché i ritmi appaiono evidenziati da narrazioni diverse. Rallentati, ad un primo sguardo. Poi ci si rende conto che sono solo sponsorizzati in una maniera definibile, rispetto a quelli a cui siamo abituati, altrimenti.
Il mondo a misura d’uomo… e di donna. Mi ripeto. E, intanto, in cuor mio, sorrido, perché non sono neppure uscita dalla mia stanza e già sento il respiro espanso.
Buffo notare come, il di più, appare esattamente per ciò che è: facoltativo. Osservo le case, in legno o in pietra, a basso impatto ambientale; i terreni, coltivati come si faceva un tempo… e già immagino la mia prima colazione… bio. Non lo so fare, penso. Mi riferisco all’autosussistenza. Lo sento come un concetto grandissimo. Io che mi prendo cura di me. Banale, eppure così difficile…
Allora, per rincuorarmi, mi ripeto che appena scesa troverò tutto. Proprio come a casa. Già… ma poi cos’è casa? Non è forse quel posto che più strettamente racconta di noi? Il luogo che ci appartiene mentre gli apparteniamo? Quello che trattiene e protegge i nostri smarrimenti, le paure, le ansie, le soddisfazioni…?
Pensare che di villaggi come questo, ce ne sono un’infinità, sparsi un tutta Italia. Stralci di terra in cui la parola verità sa rendersi concreta; carne permeabile all’atmosfera che l’attraversa.
Prima di arrivare avevo letto della comunità del Popolo degli Elfi di Sambuca Pistoiese, in Toscana. Si tratta di un eco-villaggio, cristallizzato in un tempo che non ci appartiene più. Le abitazioni non sono dotate neppure di elettricità e sono il frutto del lavoro di recupero di vecchi ruderi. Il cibo è autoprodotto: vegetali ed erbe spontanee rappresentano, insieme agli animali allevati, le fonti primarie di sostentamento, E, una volta pronte per essere mangiate, vengono suddivise tra i membri del villaggio.
Ne sono rimasta affascinata, perciò ho preso a cercare, curiosa.
Mi sono imbattuta, quindi, nella Comune di Bagnaia. Ormai si presenta come una realtà assodata. E’ nata nel 1979. Parola d’ordine, anche in questo caso, condivisione. L’individualismo, in questo fazzoletto di Penisola in provincia si Siena, abdica ad un più sentito senso di appartenenza.
Ci ho riflettuto parecchio su e, morsa dalla voglia di sapere, ho proseguito…
In Emilia Romagna, ho scoperto, esiste una comunità nata nel 1992, intenta a diffondere messaggi di pace e rispetto, nei confronti degli esseri viventi e della natura tutta. Lumen, questo il nome del villaggio, offre l’occasione per rendersi attivi, darsi da fare attraverso gli strumenti della creatività, in sinergia con l’ambiente circostante.
Sbirciavo, quasi, tra i fogli, mentre prendevo atto, pagina dopo pagina, che il mio non rappresentava un interessamento formale. Stavo chiedendo di più. Da quelle carte pretendevo, sia pur inconsapevolmente, una risposta.
E, tra le tante direzioni, mi si è palesata davanti anche quella di Urupia, a Francavilla Fontana. L’idea del Salento mi stuzzicava, nutrita dalle credenze talmente radicate da affondare in tutto ciò che l’occhio incontra. Gli spazi a disposizione dei residenti sono estesi, circa 1500 mq, tra esterni e interni e, per essere accreditati, occorre, sommariamente, voglia di ‘partecipare’.
Sarei stata pronta? Mi sono chiesta. Mi avrebbero giudicata all’altezza? Poi mi sono detta che l’unica a sottoporsi volontariamente all’esame ero proprio io. Esegeta di me stessa.
Forse per me si sarebbe rivelato più adatto il Villaggio verde di Cavallirio, in Piemonte, nutrito dall’esclusivo desiderio di rispondere all’esigenza di armonia.
Mi ha distratta l’attenzione, poi, il Giardino della gioia. E’ situato nel comune di San Nicandro Garganico, in Puglia, immerso in un uliveto secolare, all’interno del Parco Nazionale del Gargano. Mi sono resa conto che il calore del sud mi invitava con molta più grinta, inducendomi, nell’approccio, ad una maggior sicurezza.
L’ultima che ho consultato, nell’elenco, è la struttura di Upacchi. Ed è qui, alla fine, che sono volontariamente finita, nei pressi di Arezzo. Si distingue – questa – dalle altre comunità, per la cura riservata alle erbe medicinali e ai giardini.
L’acqua viene costantemente depurata, senza ricorrere all’uso del cloro. Si compone di sole quattro realtà vivibili, scaldate ancora a legna e sempre abitate da famiglie.
No so se possa considerarsi la scelta giusta. Del resto, qualsiasi avrebbe potuto rivelarsi infruttuosa. Qualunque, irrevocabilmente deleteria. Il fatto è che mi trovo qui, proprio ora. Che, abbandonate le remore, ho assunto, per la prima volta, da tempo, il potere su me stessa, sulle mie decisioni. Sono e mi percepisco. Cosa importa cosa c’è attorno? O meglio… conta, ma conta fin tanto che mi abito dentro. So che possiedo in mano uno strumento e vorrei solo adoperarlo nel modo più fruttuoso possibile… coltivare me stessa, mentre mi confronto con il resto.
Apro la porta. Dal piano di sotto si percepisce, neppure troppo distante, un ensemble di voci. Femminili, maschili… non riesco bene a distinguerle, ma si uniscono in un fare comune al cinguettio che arriva da fuori. Sembrano percorrere una melodia già scritta, scadenzata dai toni diversi, dai timbri personali… Mi piace. Credo che scenderò. Voglio andare anche io.
Non ho paura più di vedere, sentire, toccare, annusare, assaporare… i sensi sono accesi e forse, comincio a sperare, dopo un così lungo attendere, lo sono anche io.
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