Soggiornami… oppure fai scempio di me
Sono qui. Rovesciata su me stessa. Nemica di me stessa. Lacrimo, ma nessuno può sentirmi. Quel pianto si scioglie, silenzioso, lontano da tutti. Le mura scrostate, i rovi, i graffiti sulle pareti… ecco quel che rimane degli antichi fasti.
Oh sì, perché sono stata bella. Molto bella. Lo dico con vanto, sapete? Adorna di Chiese e di Casali. Io, scrigno verde della sempiterna Maestà di Roma.
Custodivo le serre, le Scuderie Reali, persino un Tempio tra le mie vestigia.
Come si fa a vivere senza rimpianti? Se mi volto indietro scorgo stupidità. Voi forse la chiamereste ingenuità. Fatto sta, ho lasciato che la vanità prendesse il sopravvento. Ho permesso, zitta, che facessero abuso di me. E lo hanno fatto, loro. Mi hanno trafitta, dritti come una spada che ti sprofonda nell’anima. Mi hanno resa irrecuperabile.
Si sono divertiti a strapparmi le vesti, io che splendevo, percorso dell’antica via Crucis. Mi hanno illusa, alcuni – i più crudeli. Mi hanno fatto credere che sarei rinata a più splendida vita ed io, famelica, ho divorato le loro parole perché ne avevo bisogno. Ero persa. Io sono, desolata creatura, prigioniera dei luoghi che mi comprimono, ora.
Persino la Casa del Custode, mia per assonanza, non è più tale. Ci abitano i suoi eredi, quando, a quest’ora, avrebbe potuto trasformarsi in motivo di rinascita. Un Caffè Letterario, magari asservito da una Biblioteca. Me lo avevano promesso. Mi avevano assicurato che il Dipartimento dell’Ambiente avrebbe agito, repentino. Parole, disattese.
Resto qui, inginocchiata nel cuore delle via Salaria, mentre la vita mi scorre davanti. Li percepisco ancora i suoni di chi mi sussurra, con tono carezzevole: “Faremo di te il più sorprendente Museo del Gioco e del Giocattolo che sia mai esistito“. Una collezione Unica. 11 mila pezzi, prodotti tra il 1860 e il primi anni ’30, opera di Leonardo Servadio. Ah, le cose le hanno fatte per bene, credetemi. Il Campidoglio ci ha versato 4 milioni di euro. Beh, sapete quanto tempo è trascorso da allora? Era il 2004. Fate da soli il calcolo.
Se ripenso alla grazia… alla bellezza, strappata…
Mi disturba financo il riverbero. Ne sarebbe venuto fuori un edificio su tre piani, pregno di laboratori, i più moderni servizi hi-tech al cospetto dei visitatori; e poi, anche qui, la biblioteca, il bar, i ristoranti… scale mobili e ampie vetrate. Mi hanno detto. Non se ne è fatto nulla.
Per un istante, nel 2013, ho immaginato di intravedere uno spiraglio di luce. Avete presenti i tre palazzi ocra, quelli adibiti alle Scuderie Reali? A parte una recinzione messa dalla Sovrintendenza non ho assistito ad alcun passo. Solo, una rete, in sostituzione, nel momento in cui anche l’ultimo baluardo di sicurezza è crollato.
Una Cattedrale nel deserto. La Casa delle ragnatele, dei ricordi sbiaditi… o , forse, ora potrei rappresentarmelo addosso, questo mio corpo, come fosse la dimora dei pipistrelli. Anche quest’ennesima fiaba hanno scelto di raccontarmi. Quella di un ospedale, creato apposta per i Signori della notte. Il Casale della Finanziera, restaurato, secondo il loro linguaggio – imbellettato, per come sono solita discorrerne io – secondo i desideri dell’Arpa, del WWF… un’operazione da 750 mila euro. Tramontata, anche questa. E’ bastato il tronco di un albero divelto sul tetto, per dirimere ogni speranza. Adesso gli echi delle medesime voci mi parlano di ludoteca.
Non mi volto. Non li guardo più neppure in viso. Sono una Signora, in fin dei conti, anche se fingono di non ricordare. Io invece sì, lo rammento.
C’è una Villa, nei pressi del Circolo Ippico Cascianese. Era, un tempo, il Casale delle Cavalle Madri. Arrivavano dalle scuderie del Quirinale quando erano in procinto di partorire. Sull’alto di una collina, la costruzione è stata abitata, per lungo tempo, da una regina. Io la definisco così… Lei, indimenticata Star del cinema… disadorna, poi. Detronizzata, sfrattata, alla guisa di una qualunque. Marisa Allasio, la burrosa Marisa Allasio, ci aveva messo piede all’età di 22 anni al fianco del suo nobile sposo: il conte Pierfrancesco Calvi di Bergolo, figlio di Iolanda di Savoia, la primogenita del re, e ci era rimasta, fin dopo la separazione. Il Comune, anche in questo caso, ha dismesso ogni senso di pietà.
Nel buio della mia mente adesso si fanno largo, licenziose, le immagini delle serre di Villa Savoia. Terra di tutti e di nessuno. Come lo era, pure, la depandance situata poco distante. Un ricovero per cani. Nulla da obiettare al riguardo. E’ che ‘cagna’, come suggello di una donna perennemente in calore, mortifica il mio udire. L’ultima delle bestie. Dileggiata, disprezzata… io. Che gli animali, al contrario, una loro dignità la mantengono.
Io, invece, non posseggo più nulla. Come una meretrice… messa alla mercé dei vandali. Esagero? Andate a controllare con i vostri occhi. Avvicinatevi a quello che fu l’antico Tempio di Flora. Lo stile neoclassico ha abdicato all’aggrovigliarsi di scritte, suggestiva testimonianza di chi, in questo modo, ha inteso rendere manifesto il proprio passaggio presso i miei luoghi. Ci hanno provato – devo ammetterlo – hanno tentato di restaurarlo per ben due volte. Ma che volete? Ci si stanca… la nobiltà d’intenti è così labile…
“Piange il cuore…“, si mormora, mentre si constata il livello del mio degrado. E, ancora, per attimi che in cuor mio vorrei rimanessero eterni, si parla di me come di un Parco, aristocratico attributo, per una località che del proprio manto di prestigio non è riuscita a conservare nulla.
Eppure un nome, ancora, lo custodisco. Quello sì. Unico privilegio, che somiglia più ad un’aggravante. C’era un’epoca in cui le puttane venivano marchiate a fuoco. Scarificate, per identificarne le sembianze. Per tenerle lontane, reiette dalla società ‘bene’. Altro.
Oggi quell’altro sono io. Sono Villa Ada. Lo sapete tutti che, di bocca in bocca, mi avete assaggiata, chi più chi meno. Di me vi siete saziati, almeno un poco. E poi, previdenti, avete preferito cancellare il ricordo di quelle ore trascorse assieme. Come biasimarvi? A rifletterci, al posto vostro, lo avrei fatto anch’io. Ma la sorte mi impone di stare.
Sono qui, immobile, vetusta. Che dirmi anziana assume il sapore di ridicolo. Io ero… sono stata… bella. Molto bella. Ora, fantasma nelle vostre strade, mi aggiro senza lasciar quasi traccia. Irriconoscibile, inquieta, affamata di rivalsa.
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